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Attenzione: Blogspot ha cambiato l'indirizzo (link) di ognuna delle pagine di questo blog, per cui i link che avete creato fino a tutto il 2009 quasi certamente non funzioneranno.

(24.06.10)

 Virilità e castità

Torna un vecchio amico dall'estero. Dopo aver lavorato qualche anno presso Famosa Grande Azienda, è stato finalmente trasferito in Italia.

Le prime cose di cui mi parla sono le sue (fantasiose) avventurette con le donne di quelle parti. Capisco che sono semplici fantasie dal fatto che introduce il discorso dicendomi che avrebbe “saputo” che durante questi anni anch'io ci avrei dato dentro. È solo un modo per dirmi che mi considera suo complice, che è disposto a ritenermi “virile” in modo che io creda alle sue gesta di “virilità”.

Per sua sfortuna, rispetto a quegli atti, la virilità non ne è l'esercizio forsennato ma il saper dominarli e saper riservarli ai momenti della vita matrimoniale in cui si desiderano figli.

“Virile”, infatti, implica “casto”. Virilità è dominarsi, è saper vincere perfino i propri limiti, perfino le proprie smodatezze.

Non è un caso che il primo significato di effeminatus, presso gli antichi romani, fosse quello di “uomo che si lascia andare alle passioni”. Cioè quello di “non virile”, perché il vir, l'uomo forte combatte e vince anche le proprie passioni. “Effeminato”, invece, è uno che come le “femmine” dà ampio spazio alle proprie passioni, uno che vuole tenere a freno tutto tranne le debolezze del proprio cuore e dei propri istinti (gli antichi romani, come in tutta l'antichità non cristiana, avevano una scarsa considerazione della donna). Secondare le passioni non è fertilità, non è virilità.

(E tu, donna, per la tua vita vuoi un uomo virile o ti accontenti di un complice che nonostante tutte le sue buone intenzioni finisce per considerarti un pezzo di carne da concupire?)

Di fronte a chi fa sfoggio di prodezze, vere o di fantasia, i ragionamenti non servono a niente. Un pizzico di ironia è sufficiente a ridicolizzare tutto il castello di fantasie dell'interlocutore, per quanto preparato e infiocchettato.

L'uomo “virile” non ha tempo per lasciarsi andare alle passioni, perché ha un ideale grande, grandissimo, che richiede l'impegno di ogni respiro della sua vita.

Ecco perché esistono il monachesimo, il francescanesimo, i grandi ordini religiosi. I loro fondatori erano virili nel senso pieno della parola.

Quel loro farsi “eunuchi per il regno dei Cieli” non era una castrazione, ma una virilità in senso pieno, un essere “innanzitutto uomini”, una virilità non intaccata dall'arrendersi ai propri istinti.

Vien da pensare alla situazione della Chiesa di oggi. I santi oggi scarseggiano perché scarseggia, specialmente nel clero, quella virilità, quella virtù (vis, forza; vir, uomo; virtus, virtù, del vir...), gli manca quell'essere uomo schietto, quella nettezza, chiarezza, eloquenza, quella capacità di imporsi che solo chi vince sé stesso può avere.

Citazione: «Un alto clero evidentemente virile, nel senso qui descritto, evocherebbe di nuovo questa potenza: basterebbe per attrarre sulla Chiesa la popolarità e un’autorità incarnata che persino gli avversari riconoscerebbero con rispetto; provocherebbe certamente il malcontento dell’harem clericale, le invidiuzze e i sussurri impotenti, il timore di veder lacerati decenni di femminei intrighi e accomodamenti col secolo. L’alto clero preferisce da tempo, ormai, le frigide esangui sicurezze del serraglio».

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(28.9.09)

 Quell'inquietudine

Quell'inquietudine che ti fa pensare: “voglio andare a casa” quando sei fuori, e “non ce la faccio più a stare qui” quando sei a casa.

Quell'inquietudine che ti fa pensare: “vorrei mangiare qualcosa”, e quando apri il frigo ti riaccorgi di essere già sazio.

Quell'inquietudine di quando non vedevi l'ora di stare accanto alla morosa, e di quando mentre stavi accanto a lei non vedevi l'ora di andar via e tornare in libertà.

Quell'andare a caccia di cose, di situazioni, di parole, che sai che ti faranno star male, e che cerchi ugualmente.

Quei grandi -grandiosi- propositi della sera prima di dormire, svaniti già all'alba del mattino successivo. Quelle grandi promesse impossibili da realizzare (“ma troverò un modo, o almeno lo spero”), quelle grandi attese, grandi aspettative, sebbene tutto lasci intuire che sarà l'ennesimo buco nell'acqua.

L'animo umano è incontentabile, inquieto, confuso. Sempre. È così che va.

Anche ottenendo tutto ciò che desidera, resta sempre inquieto.

Un'inquietudine infinita ha bisogno di una risposta dello stesso calibro: infinita.

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(26.9.09)

 Un film sul don Giussani? Bah!

Grande notizia (per chi detesta il movimento): al Meeting è stato annunciato, durante uno degli incontri, un film Rai sulla vita di don Giussani. Spero proprio che non verrà prodotto.

Annotavo sul mio taccuino: il film che banalizzerà (in direzione sentimental-teocon) il don Gius - come hanno reso melense e noiose le figure di santi e di pontefici, così banalizzeranno don Gius.

Sul Corriere, nella rassegna stampa, leggevo di quattromila ciellini in piedi in ovazione: notizia inventata di sana pianta. Infatti l'applauso c'è stato (e non sembrava neanche troppo convinto), ma l'ovazione no.

Penso che al Corriere esultassero (fino ad una “ovazione”) nel sapere che si potrà televisionizzare don Giussani: dopo la visione del film chiunque penserà di saper già tutto di CL.

Come diceva il Duce, Benito Mussolini, “la cinematografia è l'arma più forte”. Per banalizzare un personaggio o un argomento, è spesso sufficiente anche un solo film in cui piazzare anche una sola scena o una sola battuta per distruggere - o chiudere in una nicchia di “appassionati” dell'argomento - un'intera storia.

Non erano 4000 ciellini ad applaudire, erano di meno. Infatti io c'ero e non ho applaudito. Ho visto molti applaudire, ma quei “molti” non erano “tutti”. Vuoi mettere? Tra un reality e un film di Bud Spencer, tra uno sceneggiato sentimentale e una televendita, tra i cartoni animati e la rubrica sportiva... toh, il film su don Giussani.

Quel film sarà terribilmente noioso se sarà realistico e ancor più noioso se si inventeranno “cose per far crescere l'audience(mi domando come faranno a infilare una storietta d'amore, ingrediente obbligatorio per tutte le produzioni cinematografiche. Forse ne inventeranno una, rappresentando il don Gius come se fosse uno che benedice i fidanzatini infoiati: “va' dove ti porta il cuore!” e quando gli fanno dire “che c'entra questo con le stelle?” i due pomiceranno in posizione differente).

Sarà noioso. Infatti, cosa c'è di raccontabile di don Giussani? Che fino a 32 anni insegnava in seminario? Sai che vita movimentata fare l'insegnante... Cosa c'è da raccontare? Che durante tutta la vita ha celebrato la Messa e amministrato i sacramenti ed insegnato le cose della fede? Che ha parlato ed ha scritto? Cosa si può infilare in un film per “fare scena”? Come si può inscenare una messa o una lezione restando fedeli anche a come venivano fatte? Come si fa a inscenare quell'abbraccio e quello sguardo che solo chi lo ha vissuto può riconoscere?

Insomma, nel film c'è poco da “inscenare”. Don Giussani non aveva mica la vita di un Indiana Jones o di un ispettore Callaghan...

Per cui, se proprio occorre un film sul don Giussani, dovrebbe essere un documentario fatto solo di immagini di repertorio, di spezzoni di registrazioni dei suoi incontri - facendo parlare lui. Il compito -impossibile- del film è quello di far capire perché mai uno che ha solo celebrato messa e insegnato le cose della fede, obbedendo alla Chiesa anche quando certi ecclesiastici lo perseguitavano, uno che non ha mai voluto fondare niente, uno che di avventuroso ha avuto solo un caffè in compagnia o una fumata di sigaro... si è ritrovato attorno un popolo.

Già lo immagino, questo film.

Comincerà con venti minuti di patetiche scene di campagna, paesaggi, animali da cortile, per il primo gran colpo di scena: il padre super-socialista (sempre strafare!) di don Giussani bambino, che paga un violinista per andare a suonare a domicilio. Lunga ripresa della telecamera alla faccia ebete del bambino (che sembra pensare: “ma te vedi te che me tocca subire per avere 'sto benedetto regalo da Babbo Natale!”) Ed una voce dolciastra, in sottofondo, che recita (come postumi di un trip): “in casa Giussani pane e musica non mancavano mai”. Oppure la mamma del piccolo don Giussani, andando a Messa alle cinque del mattino, che dice (con la stessa rassegnazione di un “piove, governo ladro”, altro che echi del salmo VIII), “com'è bello il mondo e come è grande Dio!” La telecamera riprende il dongiussanino con faccia ebete che la guarda mentre sembra che stia pensando: “la prossima volta che sgraffigno uova dal pollaio, non mi faccio beccare”.

Seconda eroica scena: don Gius in bicicletta. Immagini del seminario, riprese facendo in modo che sembri il più lugubre e grigio possibile. Don Gius, Manfredini, Biffi e De Ponti che parlano di cose di Alta Teologia (a undici anni, di cosa volete che parlassero? di Dragonball e della Playstation?) Così, quando uno dice: “che c'entra Cristo con la matematica?” lo spettatore pensa: ma guarda te com'erano contorti i cervelli di questi quattro. Altro spettatore: “infatti non c'entra niente” (ironia della sorte, era pure vescovo o cardinale). Terzo spettatore: “Vediamo se sull'altro canale c'è finalmente qualche scena di nudo”. La vecchina spettatrice: “come la fanno complicata!” (e magari pensa pure: “però, come son cambiati i tempi... oggi vogliono dare la pillola abortiva alle dodicenni... ieri a dieci anni si entrava in seminario sperando di accedere al sacerdozio!”)

Terza grande scena: brevissimo intermezzo per dire, nel minor tempo possibile, che don Giuss diventa prete nonostante i problemi ai polmoni e che - vita eroica e avventurosa! - resta in seminario ad insegnare. La scena dei fascisti che lo inseguono mentre lui fugge in bici è stata tagliata per motivi di opportunità politica e per non dover allungare lo spiegone sui polmoni.

Quarta scena: enorme pistolotto di venti minuti, don Giussani pensoso in treno, quattro teppistelli beneducati nello stesso scompartimento, completamente a digiuno di catechismo, discutono di Alta Teologia. Ma nel film non si possono rappresentare gli errori di cui tanta gente va fiera: per esempio, se uno dei teppistelli dicesse “il Papa non conta niente!”, ci sarà una ampia “ola” in vasti settori dello stadio clericale, e se al don Gius si fa rispondere che il Papa è il successore di Pietro, il giorno dopo tutti i giornali racconteranno del film oscurantista, retrogrado e integralista... Per cui, meglio qualche stacco sul paesaggio, sull'abbigliamento dei giovani, sui sorrisi, sulle dolci parole, sulle simpatiche suonerie dei loro cellulari... anche il don Giuss, nel film, dovrà sembrare uno che si è appena “calato”, uno con aria ebete che si atteggia a dolce dispensatore di sorrisi e frasi fatte (altrimenti la gente non lo capisce, eh! La gente sa che i preti sono persone noiose: sacramenti, dottrina cristiana, liturgia in latino, sempre pronti a criticare chi “democraticamente” impone aborto, eutanasia, contraccezione e altre conquiste della “civiltà”. Perciò, in TV, i preti devono sempre essere melensi, “trippati”, “calati”, sdolcinati: dei dispensatori di sospiri e sorrisi, tra una frase fatta e l'altra. Altrimenti il Potere non gradisce).

Quinta scena: don Giussani che va di qua e di là a tenere conferenzine e incontrini (riprendere solo mentre cammina, mentre prende il tram, mentre Chieffo gli dà un passaggio nella Cinquecento). Sale i trenta (non erano tre? ma nel film bisogna sempre strafare) gradini del liceo Berchet, tra ragazzi che si fanno le canne, ragazze vestite e truccate come vecchie bagasce di periferia, coppiette pomicianti e fumanti in ogni angolo, insegnanti disperate, in fondo al corridoio c'è un falò di libri di storia e latino mentre un ragazzo capellone sputa sulla porta dello studio del preside (sapete, è vero che bisogna contestualizzare, la TV deve aiutare a immaginare nel presente, come se il don Giuss entrasse in una scuola oggi e sorridesse alla gioventù di oggi, una sorta di Mago Pancione...)

La scena della nascita dei Memores Domini è stata tagliata, perché non la capiva neppure il regista: “a chi vuoi che gliene importi di gente che vuole vivere per Cristo, in verginità, senza però farsi né prete né suora?”

Sesta scena: memorabile assemblea (in senso sessantottino) in cui qualcuno dei capelloni lì presenti agita un foglio dove c'è scritto “Comunione e Liberazione”, dicendo: “noi, per stare in comunione, dobbiamo fare la liberazione”, o qualche slogan del genere (lo sceneggiatore aveva originariamente scritto “noi, per fare la comunione”, ma poi si è accorto che quella frase richiamava i sacramenti cattolici, il che poteva offendere troppa gente, per cui la frase è stata modificata). Primo piano del don Giussani che, pensoso, osserva da lontano il foglio. “Siamo nel 1969”, racconta la voce trippata del narratore, “e don Giussani sceglie il nome del movimento che ha fondato”. (Nota dietro le quinte: “affondato?” chiedeva il cineoperatore. “Fondato, fondato!” grida il regista. “E quando lo avrebbe fondato?” chiede lo sceneggiatore. “Mah, c'è tutta questa gente nella scena, si presume che lo abbia fondato, lo spettatore capirà... Se tanta gente sta radunata attorno a qualche santone, dev'esserci per forza un intento politico o una credulità religiosa... possiamo mica dire che seguivano don Giussani perché lo vedevano più cristiano di loro? Ci licenzierebbero in tronco! Così, meglio lasciare alla fantasia dello spettatore la risposta, ognuno crederà quel che gli pare, l'importante non è la verità, ma quel che ognuno vuol credere!”)

Settima scena: anonimi assaltano la Jaca Book, casa editrice “ciellina”, manifestini anti-ciellini nell'università (anche qui ragazzi pomicianti, capelloni, canne, e nessuno che studia: sapete, bisogna che gli spettatori trovino la cosa realistica, familiare). Don Giussani serafico che sospira e dice: “pace, pace e bene” in ogni occasione (un po' di libertà di regia, vorrete mica negarla?) Il portone della Jaca Book è un pochino sporco e bruciacchiato (non si può mica dire che gli studenti di sinistra tiravano molotov e distrussero ben più che l'intera sede della Jaca Book, non si può mica dire che le Brigate Rosse gambizzavano esponenti ciellini, non si può mica dire che appartenere a CL faceva guadagnare mazzate perfino dal FUAN e campagne diffamatorie perfino da ambienti cristiani... tutto questo sarebbe poco politically correct; ci querelerebbero... magari uno di quei tiratori di bombe molotov oggi è ai vertici di qualche importante partito; sapete, tutti i sessantottini si sono riciclati, non si sa mai; rimedieremo con la scena di don Giussani che salva un gattino arrampicatosi su un albero e tra mille sorrisi e mille applausi dice qualche sua frase famosa ciellina che nessuno dei telespettatori capirà).

Ottava scena: “facciamo un meeting, sì, facciamo un meeting!” urlano i giovani della solita folla di capelloni radunata (anche stavolta non si sa perché) attorno a don Giussani. Il don Giussani dice: “dobbiamo fare il Meeting, bisogna fare il Meeting e deve diventare internazionale e grande e famoso”. Infatti, la gente capirebbe mai che il lavoro di alcuni volontari può produrre frutto e crescere? La gente può comprendere mai che il Meeting è sintesi di ingenua baldanza e di attenzione nell'organizzazione? La gente capirebbe mai che le opere del movimento di CL sono il risultato di una fede vissuta piuttosto che la premessa per un volontarismo da tempo libero?

Nona scena: funerali di don Giussani. Pistolotto gigante su quant'era buono quell'uomo (ma perché? non si sa), quant'era bravo quell'uomo (ma perché? non si sa), quanto era Esperto di Giovani quell'uomo (ma perché? perché i ciellini invadono scuole e università e ancora non li si riesce a cacciar via; anzi, più li si perseguita e più aumentano di numero: è una vera tragedia per i movimenti studenteschi di ogni colore, che vedono erodersi tutto il consenso). Entra in scena il cardinal Ratzinger, che durante l'omelia alle esequie dice: “ton Ciussani afefa rifiutato tue volte l'episkopato, ja, und la sekonda folta pure il kardinalato, ja” (la gente apprezzerà, perché i cultori del potere affermano sempre che se uno vuole essere considerato cristiano allora non deve avere incarichi né politici né ecclesiali, perché deve lasciarli tutti ai sinistrorsi progressisti).

Scena finale: panoramica su una folla oceanica di giovani, che più che una Giornata della Gioventù sembra un happening alla Woodstock. I titoli di coda sono più lunghi della Divina Commedia, ma ovviamente non contengono nessun riferimento al movimento di CL: non sia mai che qualche spettatore abbia da incuriosirsi su questo popolo cristiano...

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(23.9.09)

 Quando leggere è il cibo avariato per la mente

“Leggere è il cibo della mente”, recitava una campagna governativa (no, non è una citazione di Orwell, ma della cronaca italiana di questi ultimi mesi).

Leggere è il cibo della mente, sì, ma... attenzione a come cibiamo la mente!

Non tutte le letture sono uguali. Anzi, molte letture - la maggioranza - sono dannose. Le cose peggiori che ho appreso in vita mia (e che se potessi farei sparire con un'amnesia selettiva) le ho apprese proprio “leggendo”.

Il danno non è immediato. A volte è impercettibile. Leggi tutti i libri di un dato autore, e ne assumi la mentalità. Anche quando si tratta di un romanzo. Soprattutto quando si tratta di un romanzo.

Da piccolo anch'io caddi nel tranello. A furia di sentirmi dire che dovevo leggere, leggere e ancora leggere, cominciai a leggere tutto (anche le etichette delle bottiglie di minerale...)

Trovai un giallo in cui uno dei protagonisti estorce informazioni da una confessione sacramentale, fingendosi prete. Lo faceva a fin di bene. Smisi di leggerlo: un pugno nello stomaco sarebbe stato meno doloroso. Lo ripresi dopo qualche giorno, per lo scontatissimo finale, ma avevo già capito che i gialli non mi piacevano più.

Per sentirmi adulto presi a leggere fantascienza. Noia mortale. Per apparire cupi, tetri e fantascientifici, gli autori di quelle idiozie farcivano ogni paragrafo con una abbondante e noiosissima retorica, composta per gran parte di termini insulsi e futuristici. Mi sembrava non di leggere, ma di non-leggere: quei paroloni incomprensibili dovevano eccitare la mia fantasia e farmi immaginare che esistessero macchinari e astronavi capaci di questo e di quello, che l'autore non era in grado né di descrivere e neppure di figurarsi.

Ciò che mi bruciava di più erano quelle stupide morti nello spazio. Cupi scenari, tetri ambienti, morti eroiche (e meno eroiche) destinate però ad essere men che pulviscolo nel cosmo. Quante volte mi sono domandato che senso abbia tanto eroismo spaziale se poi nella fantascienza si crepa sempre senza i sacramenti.

Per sentirmi grande mi ostinai a lungo a leggere quei romanzetti, cercando di non rimpiangere i gialli che, ancorché cretini, avevano almeno un senso: l'investigatore che cerca la verità senza farsi inquinare dai pregiudizi, la tensione verso una giustizia, l'incapacità di comprendere tutti i fattori della realtà... (nei gialli, tolto il novantotto per cento di sbobba tipica del loro genere, avanzava un po' di questo).

Ad un certo punto smisi del tutto di leggere romanzi. Né fantascienza, né gialli, né altro. Non fu per un vezzo da adolescente, ma per un'irriducibile noia e per l'acquisita consapevolezza che nessuno sa scrivere romanzi (oggi sono meno drastico e penso che pochissimi siano capaci di romanzare senza comporre fiabette imbecilli).

Il don Giussani era con somma evidenza cosciente di questa dinamica. Suppongo che anche lui sia giunto alla stessa conclusione, forse anche alla mia stessa età.

È per questo che volle la collana dei “libri dello spirito cristiano”. Volle darci qualcosa da leggere - fosse anche un mattone tremendo come Vita e destino di Grossman - che però ci lasciasse una domanda aperta, ci lasciasse l'anima pulita, ci mostrasse un'immagine di qualcosa che magari non riuscivamo a cogliere con i ragionamenti teorici.

Ne lessi uno per il solo motivo che al don Giussani avrebbe fatto piacere. Non ricordo più quale romanzo fosse. Ricordo solo che mi piacque e che mi provocò la sensazione opposta a quel giallo di uno sconosciuto autore felice di mostrare un sacrilegio.

Così, tra romanzi e saggi, cominciai a comprare tutto ciò che era della collana di don Giussani. Non li ho ancora letti tutti (può talvolta capitare un mattone come quello di Grossman, anche se sarà arduo raggiungerne la lunghezza: non oso immaginare l'epoca in cui si diceva che Vita e destino era “il libro del movimento”).

Però ogni volta che ne comincio uno, è sempre un piacere.

La collana dei libri dello spirito cristiano è davvero “il cibo della mente”. Non è la collana dello “spirito ciellino”, stiano tranquilli i miei detrattori (due detrattori, cioè il cinquanta per cento dei lettori di questo blog). E “spirito cristiano” non limita la lettura ai soli cristiani; un ateo onesto potrebbe leggerli tutti e apprezzarli tutti.

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(22.9.09)

 Matricole

Ed eccole lì, le matricole. Le riconosci subito.

Fino a ieri erano ragazzine a scuola, oggi sono Matricole Universitarie.

Fino a ieri dovevano andare a scuola tutti i santi giorni, da oggi possono andare in Facoltà e all'Ateneo quando loro pare e piace (dopotutto si chiama Facoltà perché lì tutto è Facoltativo, no?)

Fino a ieri avevano bisogno del diario, dei quaderni, dei libri, del libretto delle giustificazioni; fino a ieri dovevano chiedere il permesso per andare alla toilette, dovevano sperare che nessun prof interrogasse a sorpresa, dovevano studiare ogni giorno la deprecabile “lezione del giorno” e riempire quaderni di noiosissime balordaggini... Oggi invece sono Studentesse Universitarie, che gestiscono da sole tempo libero, corsi, tempo libero, lezioni, tempo libero, studio, tempo libero, piani di studio, tempo libero, giornate libere, tempo libero...

Ed eccole lì, che confondono l'università - fatica nello studio, costanza nei sacrifici, piccole e grandi umiliazioni - con il Luogo Sociale dove effettuare le loro quotidiane sfilate di moda, conversare con le amiche delle futilità del momento, saltare ore di lezione per passare ore al cellulare. Tanto i denari in tasca non mancheranno mai: babbo! sono una Studentessa Universitaria! Non è mica come la scuola, sai! Perciò ho bisogno di rilassarmi e divertirmi un po' più spesso e con una paghetta settimanale adeguata al mio nuovo, rispettabile, prestigioso, intoccabile status sociale!

Se queste son le donne - che almeno di tanto in tanto hanno il loro momento coscienzioso e studiacchiano e seguono magari per intero i corsi - figurarsi gli uomini.

Uomini, che gran parola. A scuola erano tutti ribelli, ognuno a modo suo. Gli adolescenti sono terribilmente prevedibili: pensano tutti che per essere adulti occorra ribellarsi agli adulti.

Poi tali Uomini giungono all'università e la loro ribellione si istituzionalizza. Finalmente, da Studenti Universitari, gestiscono da soli il loro tempo libero, che è il tempo che separa una giornata libera da un'altra giornata libera.

Conosco gente che ha frequentato l'università quando si poteva entrare solo se con giacca e cravatta e c'era da studiare sodo anche di notte. Gli svaccati di oggi arrivano all'università senza conoscere la lingua italiana, ma velocissimi nel digitare SMS, esperti del commento estemporaneo su Facebook, informatissimi sull'ultima puntata del tale programma televisivo, campioni nel farsi omologare dalle mode trash del momento, immancabili al Sacro Dovere Religioso dell'Obbligo Assoluto di Divertirsi il Sabato Sera (ed anche durante tutto il resto della settimana).

Incredibile, spesso riescono perfino a conseguire una laurea. Ma stranamente, una volta laureati, sembrano ancora gli stessi ignoranti di sempre. Incapaci di azzeccare un congiuntivo (e noi che ridevamo di Fantozzi e Filini), incapaci di studiare per apprendere (e capaci a stento di imparacchiare qualche nozione a memoria con la cadenza e i tic del professore del momento), incapaci di appassionarsi a ciò che studiano - vanno a giurisprudenza perché era bella la scena di quel processo in quel film, vanno a informatica perché si sentono bravi coi videogiochi, vanno a biologia perché hanno saputo che il primo esame si supera senza studiare, vanno a matematica perché sanno che è pieno di ragazze, vanno a scienze commerciali perché si sentono già manager di multinazionali, vanno a ingegneria perché sanno cambiare da soli la SIM nel telefonino e perfino riprogrammare il videoregistratore.

Riescono a laurearsi perché nessun professore può bocciare contemporaneamente tutti gli studenti del corso senza essere licenziato. Per cui se ieri occorreva conoscere mille per essere promossi, e oggi non c'è nessuno capace di apprendere più di quaranta, la sufficienza viene fissata a dieci. E dai, studentello della malora, sputa fuori almeno una formuletta decente, dai, ti promuovo, basta che ti togli dai piedi. E su, signorina, sputa fuori una citazione, dammi almeno una data e un titolo, pensi forse che le tue parti del corpo così bene in vista siano la materia d'esame da mostrare?

Eccolo, l'esercito di studenti italiani ignoranti e arroganti, e non si dica che la colpa è dei professori - che tra tutte le colpe che possono avere, certamente non c'è quella del trovarsi davanti a degli “studenti” tali sulle carte dell'iscrizione, ma grandemente incapaci non dico di appassionarsi, ma almeno di studiare.

C'erano i tempi in cui a diciotto anni, con un diploma, si trovava un lavoro non manuale (e il lavoro manuale era detestato solo dai pargoli sciccosi dell'aristocrazia) e ci si sposava pure; tempi in cui con la laurea si accedeva alle professioni più delicate, già dal giorno successivo alla discussione della tesi.

Laurearsi, oggi, a che serve? La domanda è lecita, perché il titolo di studio è notoriamente insufficiente a trovar lavoro. Master, specializzazioni, praticantato: è richiesta “esperienza” dovunque, perfino il garzone del bar è richiesto con curriculum ed “esperienza”, figurarsi un ingegnere elettronico espertissimo delle formazioni del Milan e della Roma ma incapace di distinguere un condensatore da una resistenza. Stendiamo un pietoso velo sugli accessi agli albi professionali, l'ingresso nei concorsi, il precariato, le caste professionali in cui si può solo essere cooptati per parentela o pesantissima raccomandazione...

Ed eccole lì, le matricole, abbigliate come in un ipotetico racconto-trash Piccole Bagasce Crescono, tutte sorridenti e sicure di sé, avviarsi a passo sicuro e sguardo ammiccante verso la segreteria della Facoltà, nella sede dell'Ateneo, le nostre care Studentesse Universitarie, che già pregustano le storiette d'amore, già pianificano su chi lanciare la rete, pensando di trovare qualche Studente Universitario ricco, bello, full optional, che aspetta solo di innamorarsi, e magari pure con media alta e potere magico per far apparire la cultura là dove non c'è.

Ed eccoli lì, gli Uomini Adulti, abbigliati come idioti, impermeabili al sapere (che non sia quello calcistico e quello pornografico), dirigersi verso la sede della Facoltà, alla segreteria dell'Ateneo, dove farsi certificare come Studenti Universitari, cioè Uomini Adulti dotati di Prestigioso Status Sociale col quale contano di sedurre e abbandonare quante più possibili.

Non è una serie di problemi: è un solo unico problema. Manca un'educazione “di popolo”, perché prima è stata sostituita l'educazione con l'istruzione, e poi l'istruzione con l'approssimazione. Educare non è riempire un secchio, ma è accendere un fuoco. Ma ormai questo non lo sa più nessuno e -quel ch'è peggio- chi lo sa viene deriso e perseguitato.

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(21.9.09)

 Armi di distruzione di massa (della liturgia)



Questo pannello illustra alcune armi di distruzione di massa (della liturgia):

  • comunione alla mano (come se fosse una distribuzione di biscotti)
  • “suore” in pantaloni (disprezzo dell'abito religioso in generale ed invasione dei neoclericali)
  • chitarre (e altri strumenti e abitudini musicali che trasformano la liturgia in un teatrino)
  • chierichette (e riduzione della celebrazione a spettacolino in cui tutti vogliono sentirsi protagonisti, incluse le perniciose “preghiere dei fedeli”, le tristissime processioni offertoriali e via di questo passo)
  • gli hippy della parrocchia (giovani e soprattutto meno giovani che espropriano la liturgia al clero e la banalizzano a spettacolino delle proprie manie settimanali)
  • striscioni e cartelloni (ed ogni altro tentativo di introdurre elementi mondani negli spazi sacri e nella liturgia).
La lista, ammette l'autore, non è completa, ma in una sola vignetta rende l'idea.

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(18.9.09)

 Una giornata al Meeting mi ha costretto a cambiare radicalmente idea

Su Il Tempo del 2 settembre 2009, Roberto Arditti - che aveva sempre visto Cl come «una specie di mostro» - commenta una giornata passata al Meeting. Evidenzio qualche passaggio:

Una giornata trascorsa a Rimini mi ha costretto a cambiare radicalmente idea, di fronte ad un movimento «di base» ricco di forza e vitalità. Ho visto un’Italia bella e allegra, fatta di ragazze e ragazzi dalla faccia pulita, seria e curiosa.

Ho visto un movimento forte e serio, fatto di gente che crede in quello che fa e che lavora per fare qualcosa di utile per la collettività. Ho ascoltato le loro voci, scrutato i loro occhi nella sala della conferenza. Dico la verità: ne sono rimasto impressionato, positivamente impressionato.

Sono tornato con la mente alle mie battaglie universitarie, cercando con la memoria il senso delle nostre posizioni. Certo, la laicità della politica è un grande valore, la concorrenza aiuta (se regolata) la diffusione del benessere, la libertà dell’individuo è bene primario e prioritario. Però mi chiedo: il mondo laico di fine XX secolo cosa ha lasciato ai più giovani? Quale forza «utile» abbiamo saputo costruire?

Non trovo risposte convincenti a queste domande, mentre invece i ragazzi del Meeting sono liberi e forti (senza mitizzarli, per carità). Liberi di essere lì e non a sballarsi in discoteca, forti di un senso di comunità palpabile nell’aria.

Alle undici della sera torno al parcheggio per riprendere l’automobile. C’è una ragazza, seduta da sola su una piccola seggiola di plastica. Mi saluta sorridente e mi accompagna alla macchina. È addetta (volontaria) al parcheggio, capirai che privilegio. Sta lì, con la sua maglietta del Meeting, contenta di quello che fa. E sorride a una persona che incontra per pochi secondi.

La sera precedente ero a cena al Billionaire. Nessuno sorrideva come quella ragazza al parcheggio.
Vorrei commentare solo quest'ultima affermazione.

Come in matematica, a volte basta un solo “controesempio” per smontare grosse e radicate asserzioni.

Al “Billionaire” (sono fiero di essere tuttora completamente ignorante su cosa sia), i sorrisi erano prefabbricati. Come del resto in qualsiasi altro cosiddetto luoghi di divertimento, la felicità è un banale insieme di attività e di apparenze.

Dopotutto, divertimento non significa felicità; l'essere lieti non è riducibile all'allegria, perché si può essere lieti anche nel dolore e nella fatica, e si può essere felici anche senza rincorrere i divertimenti.

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(13.9.09)

 Mezza vocazione

Premessa: “vocazione”, qui, si intende “alla vita consacrata”; la cosiddetta “vocazione al matrimonio” non è una vocazione in senso stretto, è solo un elegante modo di dire “chiamata alla santità nell'ambito del matrimonio”. Infatti “vocare” in latino significa “chiamare” e nel Vangelo ha un significato più alto di quello ordinario; Nostro Signore infatti sceglie determinate persone e le chiama: “sèguimi”, e si può lasciar tutto e seguirlo, oppure no. Non confondiamo la chiamata alla santità - che è per tutti - con la chiamata speciale alla vita consacrata, che esclude la vita matrimoniale.

Qualche settimana fa mi sono imbattuto nel blog di una giovane statunitense, fresca di laurea in Italia (con una tesi su Cicerone) e appena entrata in clausura.

Lessi avidamente quelle pagine. Qualche giorno dopo ne parlai con un'amica suora e mi sentii rispondere che tanta contentezza per la notizia di quella vocazione è... già una mezza vocazione. Restai di sasso.

Restai di sasso perché quel termine - “mezza vocazione” - lo avevo sempre usato come dispregiativo, riferendolo a quelle persone che sembrano tanto religiose, tanto vicine alla vita consacrata, tanto pronte a partire, e poi non partono mai, resistendo alle circostanze, passando a volte decenni interi nell'indecisione e nel lasciarsi trasportare dalle piccole cose della vita senza aver mai il coraggio di prendere sul serio almeno una delle sante proposte che hanno davanti agli occhi (incluso il matrimonio).

Invece io sono stato apostrofato con quel termine “mezza vocazione” per indicare qualcosa di positivo. Qualcosa che sta nascendo e di cui io stesso neppure mi starei rendendo conto. Sebbene non sia la prima volta in vita mia che me lo sento dire, confesso che ho avuto un leggero ma percepibile brivido.

La vocazione, se uno non ce l'ha, non se la può dare (il che, fino a quel brivido, mi aveva sempre tolto dai guai). La vocazione è un dono di quelli grandissimi, di cui ci si accorge quando meno lo si aspetta. Insomma, la vocazione, o non ce l'hai, o la stai rifiutando o la stai accettando. Non esistono alternative, non ci sono aree grigie.

Ci è facile parlare di vocazioni quando riguardano gli altri - molto meno facile quando riguarda noi; la prima sensazione, la prima reazione, è di irritazione per un discorso che ci tocca l'anima in uno dei suoi punti più delicati (ancor più nei casi in cui l'interlocutore non ci testimonia la sua vocazione).

Ora, io le volevo parlare del blog di Ann e invece mi ritrovavo a dover parlare di me. Messo all'angolo, per di più col termine “mezza vocazione” che io usavo come dispregiativo e stavolta invece lo sentivo usare in senso positivo (ah, le sfumature della lingua italiana: e non era banalmente la differenza tra bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno).

Se avessi qualche minimo ragionevole sentore, potrei andare alla “verifica” (a differenza di altri ambienti ecclesiali il movimento di CL ha una particolare cura e sensibilità per la verifica vocazionale). Ma alla “verifica” non si va per fare sport, non si va per far compagnia alla cara amica, non si va se non c'è qualcosa di grande di te che ti spinge, non si va con un progetto in testa restando impermeabili alla “verifica”.

Riflettendo sulla mia vita, mi sembra di capire che al fondo del mio cuore c'è il desiderio di vivere con una donna, metter su una famiglia, alla quale dedicare tutta la vita. Insomma, a quanto pare ho la cosiddetta “vocazione al matrimonio”, cioè non ho la vocazione (quella vera, quella fuori dell'ordinario, quella dell'irresistibile “seguimi!”)

Sì, quelli della San Carlo sono i miei eroi (più dell'Inter, ma non ditelo in giro), i Memores Domini sono i miei eroi (più dell'Inter, ma non gridatelo nelle piazze), così come i monaci della Cascinazza e altri ancora...

Che ci sarebbe di meglio di un ciellino come me, da associare a delle vocazioni sorte attraverso l'esperienza di CL? Facile a dirsi: questa domanda può talvolta contenere un pericoloso equivoco - che cioè basti condividere delle cose per assicurarsi una vita felice o che la vera compagnia sia qualcosa di pianificabile a volontà.

Nei laceranti momenti di crisi (che possono arrivare anche tra venti, trenta, cinquant'anni), quando ti chiedi “ma chi me l'ha fatto fare”, può mai bastarti il sapere che per la tua vita avevi scelto ciò che ritenevi giusto e lodevole? Con ciò voglio dire che uno può anche fare vita comunitaria vivendo di fatto da solo. Può cioè funzionare come allo stadio: decine di migliaia di persone che hanno in cuore la tua stessa idea, ma anche quando nel tripudio generale la tua squadra segna il goal della vittoria, nessuno degli altri presenti allo stadio ti è veramente vicino come ti è vicina tua moglie (che in quel momento sta a sfornellare in cucina, e della partita non gliene importa un fico secco).

Per quanto gli amici “con vocazione” mi abbiano assicurato che benché in condizioni diverse, nel campo affettivo la vita di verginità non ha nulla in meno della vita matrimoniale, e per quanto io sia convinto della ragionevolezza di tale affermazione, c'è qualcosa in me che mi dice che io sono fatto per stare accanto ad una donna. Mi sento talvolta “tentato” dalla vita religiosa, ma credo che ciò sia ordinaria amministrazione per qualsiasi cristiano - prima o poi, nella vita di ogni cristiano, viene almeno un momento in cui ci si sente seriamente attratti dalla possibilità della vita consacrata.

Un po' impacciato (e con un pizzico di irrazionale paura di scoprire di essere una “mezza vocazione” anch'io, ma in senso dispregiativo), ho tentato di dire tutte queste cose all'amica suora, sortendo però l'effetto opposto, forse anche per il fatto che da un anno sto senza morosa (orrore, orrore). Avrei potuto rassicurarla che mi sto attrezzando (difficile corteggiare in questi tempi dove il matrimonio è equivocato molto più che la già equivocatissima vita religiosa), ma probabilmente mi era solo mancata la prontezza di osservare che quanto più si ama la Chiesa, tanto più si hanno a cuore le vocazioni.

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(12.9.09)

 Di quella volta che clandestinamente in parrocchia regalai una copia di Tracce

Un episodio di samizdat, cioè stampa clandestina.

Una copia di Tracce costa solo tre euro. Ma sono tirchio, ne regalo una copia solo quando sono sicuro che finisce nelle mani di chi la desidera e la leggerà con attenzione.

Quella volta c'era il giovane vice-parroco, un prete di quelli moderni, quello che con le persone “ci dialoga”: cioè quello che non sa rispondere agli interrogativi più essenziali; anche lui, al pari del suo superiore, anti-ciellino purosangue.

La Dolce Euchessina, cioè una delle più autoimpegnate della parrocchia (1) aveva portato una sua amica alla consueta Riunione dei Giovani. Sorprendentemente l'amica in questione era una ragazza intelligente, con domande serie, domande drammatiche. Alle quali né il vice-parroco né gli altri notabili della corte parrocchiale avevano risposte che andassero al di là dei paroloni di circostanza.

Non c'è niente di più osceno del sentire stupide risposte alle grandi domande della vita. Così, per sopperire all'asfissiante predica “pastorale” del vice-parroco, pensai bene di sacrificare la mia copia di Tracce che portavo nel sottofondo nascosto della mia borsa (sapete com'è: non si sa mai... se ci scappa una perquisizione e vieni beccato in possesso di quel materiale proibito, come minimo ti processano per direttissima perché vuoi imporre le tue idee alla parrocchia, che invece è di tutti).

Purtroppo l'occhiuta vigilanza del clero e dei suoi emissari mi impediva ogni movimento, ma recitai rapidamente una giaculatoria domandando una buona occasione e poco dopo il termine la Riunione dei Giovani ebbi l'agognato momento propizio: la Dolce Euchessina, tutta presa dalle tante faccende della parrocchia, aveva già piantato in asso la sua amica (sul cui volto si leggeva il convinto e irrevocabile desiderio di non partecipare mai più ad una Riunione dei Giovani), cosicché potei fermarla per i pochi secondi sufficienti a regalarle quel numero di Tracce dicendole che c'era un articolo che rispondeva proprio alla domanda che aveva fatto.

Mi ringraziò, la mise nella borsa e da quel momento sparì per sempre dalla parrocchia. Supplemento di giaculatorie e preghiere per domandare che sì, che apra quella benedetta rivista, che la sfogli, che veda con i suoi occhi che il mondo non è solo quella cagata di Famiglia Cristiana e Vita Pastorale.

Pochi giorni dopo ci fu il pandemonio.

Non so esattamente cosa accadde: so solo che fui decurtato di tutti i miseri privilegi che avevo lucrato fino a quel momento (come la possibilità di intervenire sporadicamente durante la Riunione dei Giovani), la Dolce Euchessina mi guardò col sorrisino da boia, il viceparroco mi marcò a vista come durante una finalissima dei mondiali e il parroco non mi affidò mai più mansioni parrocchiali senza affibbiarmi un commissario ecclesiale (equivalente del commissario politico dell'Unione Sovietica).

Evidentemente l'amica della Dolce Euchessina, richiesta di un parere sulla “bellissima” Riunione dei Giovani, avrà esternato tra le tante invettive anche un complimento alla rivista Tracce, per cui saranno stati presi tutti i provvedimenti del caso per evitare che la parrocchia censisse già una seconda persona che non detesta Comunione e Liberazione.

Non ho mai più ricevuto notizie di lei e a tutt'oggi nella Mega-Parrocchia (equivalente della fantozziana Mega-Ditta) resto ancora l'unico (uc)ciellino, come una particella di sodio della vecchia pubblicità (no, non come il bambino buono qui sotto).



(1) Se sapesse che la identifico con quelle due parole, prima tenterebbe di suonarmele di santa ragione (per “Euchessina”) e poi in lacrime di gioia mi implorerebbe di sposarla (perché sono forse il primo uomo che in vita sua la qualifica come “Dolce”, seppur “Dolce Euchessina” che regola dolcemente l'intestino).

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(8.9.09)

 La Chiesa autosecolarizzata

Anche stavolta il Papa distribuisce bastonate a quella parte di Chiesa che si è imborghesita ed ama sentirsi moderna rincorrendo le mode del mondo.

Amati Fratelli, nei decenni successivi al Concilio Vaticano II, alcuni hanno interpretato l'apertura al mondo non come un'esigenza dell'ardore missionario del Cuore di Cristo, ma come un passaggio alla secolarizzazione, scorgendo in essa alcuni valori di grande spessore cristiano, come l'uguaglianza, la libertà e la solidarietà, e mostrandosi disponibili a fare concessioni e a scoprire campi di cooperazione. Si è così assistito a interventi di alcuni responsabili ecclesiali in dibattiti etici, in risposta alle aspettative dell'opinione pubblica, ma si è smesso di parlare di certe verità fondamentali della fede, come il peccato, la grazia, la vita teologale e i novissimi. Inconsciamente si è caduti nell'autosecolarizzazione di molte comunità ecclesiali; queste, sperando di compiacere quanti erano lontani, hanno visto andare via, defraudati e disillusi, coloro che già vi partecipavano: i nostri contemporanei, quando s'incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun'altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto.
La Chiesa è “nel” mondo, ma non è “di” questo mondo.

La missione della Chiesa non è riducibile ad assistenza sociale ed intrattenimento religioso.

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(8.9.09)

 Quel coltellino svizzero...

Qui sotto inserisco la mia (speriamo decente) traduzione del post The Story of a Swiss Army Knife della blogger Quantitative Metathesis (QM).

Quel coltellino svizzero...

Mi sono talmente divertita a raccontare oggi questo episodio che non vedo l'ora di ripeterlo. È una storia vera, oltre che qualcosa di adatto per festeggiare la vigilia del mio quarto “compleanno cattolico”.

Nell'autunno del primo anno di università un amico mi venne a far visita e mi chiese: “QM, pensi di potermi aggiustare questo?” Suppongo che ritenesse utile chiedermelo perché in precedenza, nello stesso anno, ero riuscita ad rimettergli insieme con la colla il suo crocifisso da parete che cadendo era andato in pezzi. Perciò gli risposi che ci avrei provato, mentre mi mostrava quella specie di collana - grani di legno connessi tra loro con ganci a catena e un crocifisso alla fine. Di quell'oggetto, che lui chiamava “rosario”, mi fece notare che uno dei collegamenti era rotto, per cui non era più un cerchio chiuso.

Ora, io non sapevo che cosa fosse un “rosario” - ero dopotutto una buona luterana! - non sapevo nulla più di quanto lui mi avesse detto. Pareva abbastanza semplice da aggiustare. Tirai fuori il mio caro vecchio coltellino svizzero (che conteneva un paio di comode pinze) e dopo aver giocherellato un po' col filo riuscii a riconnettere i ganci.

Ebbi da ripararlo più volte durante l'anno. Pare che l'amico lo utilizzasse parecchio, portandolo con sé in tasca al punto di strapazzarlo troppo o di farlo impigliare nell'orologio che pure aveva in tasca (sigh... gli uomini!)

Non mi ero ancora fatta un'idea di cosa fosse esattamente un “rosario”, ad eccezione delle sue caratteristiche fisiche e del fatto che lui lo utilizzava per pregare. Ma era un oggetto simpatico, e col coltellino svizzero riuscivo sempre a ripararlo.

All'epoca stavo cominciando a scoprire la Chiesa catttolica e la teologia cattolica. Nella mia cerchia di amici si parlava volentieri di fede e di religione e ci ritrovavamo spesso a discutere e fare confronti. Il mio amico del rosario una volta portò me e la mia compagna di camera ad una messa, era di giovedì. Quando entrammo nella piccola cappella, entrando si inginocchiò, poi prese posto (e lì, di nuovo, si inginocchiò), quindi tirò fuori il rosario e cominciò a recitare una serie di preghiere, ripetendole più volte, insieme alle altre persone nella cappella. Alcune preghiere non le conoscevo, ma tutti gli altri lì presenti le conoscevano. Che roba sarà mai? Cosa stanno facendo? Ed io cosa sto facendo in questo posto strano?

A gennaio, dopo una di quelle discussioni sulla religione che avemmo nella nostra stanza, seguii l'amico fuori in corridoio.
“Mi insegneresti il rosario?”
Non so perché glielo chiesi, e certo nemmeno all'epoca lo sapevo. Ma c'era dentro di me qualcosa che mi spingeva a chiederlo; penso fosse il desiderio di avere la stessa cosa che aveva lui. Lui sapeva qualcosa che io non sapevo, amava qualcosa che io non avevo, possedeva qualcosa che io non possedevo.
“Mi insegneresti il rosario?”
Mi parve sorpreso, ma fu subito d'accordo e contento di insegnarmelo.
“In latino o in inglese?” mi chiese. Beh, stavamo entrambi studiando materie classiche... ovviamente scelsi il latino!

In camera sua, cominciammo meccanicamente.
“Ripeti con me: Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum”.
Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum.
“Benedicta tu in mulieribus”.
Benedicta tu in mulieribus.
“Et benedictus fructus ventris tui, Jesus.”
Et benedictus fruc...?
“Fructus ventris tui, Jesus.”
Et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
E così via. Frase dopo frase, preghiera dopo preghiera, fu come costruire il rosario insieme. Scoprii quel ritmo di preghiere ripetute, e scoprii che una delle preghiere (la più ripetuta) era indirizzata a Maria. Era un domandare alla Vergine Madre di Dio di pregare per noi poveri peccatori. Era un gridare per chiedere aiuto in un mondo decaduto, e un guardare avanti con la speranza che ci viene dall'Incarnazione. Come mi suonava bene! Lasciai lentamente scivolare il mio piccolo cuore confuso in quelle preghiere.
Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae!

Un giorno mi disse: “penso che sei pronta per imparare i misteri”. Scoprii dunque che le preghiere parlate non sono il cuore del rosario, che in realtà è una meditazione sulla vita e sulla missione di Gesù Cristo! Wow! Splendido! Chi poteva immaginarlo che in quei 59 piccoli grani era contenuto così tanto? Cominciammo perciò a pregarlo insieme, con regolarità. Dopo poche settimane mi fece addirittura guidare la preghiera. In breve tempo mi affezionai tantissimo al rosario.

Davvero, parlo sul serio. Cominciai addirittura a creare segnalibri-rosario con filo da ricamo e ritagli di vecchie scatoline da regalo. Era un po' ridicolo, ma conservo ancora uno di quei segnalibri: è nel mio catechismo.

Come probabilmente potete prevedere, la mia esplorazione della Chiesa cattolica cominciò a diventare una valanga proprio da quando avevo iniziato a pregare il rosario. Maria mi aveva preso per la collottola e mi stava conducendo decisamente verso il suo Figlio, sia che io lo sapessi o no, sia che lo volessi o no. Dopo un mesetto mi ero ormai resa conto che stavo non solo prendendo in considerazione il diventare cattolica, ma ero già sulla buona strada per diventarlo! La dottrina cattolica aveva molto più senso di qualsiasi cosa io avessi sentito prima, e vi ritrovai tante cose che avevo già creduto quando ero luterana sebbene non le avessi mai trovate nel luteranesimo. Cominciai perciò ad indagare cosa mi sarebbe stato necessario per fare il gran salto.

Ci fu un bel po' da indagare, certo, ed ebbi bisogno di parecchio aiuto prima di riconciliarmi (inclusi gli ultimi dettagli dottrinali su Maria), ma senza dubbio resto convinta di questo: cercare assolutamente quella Maria. È una madre, e farebbe qualsiasi cosa per portare i suoi figli a Cristo. Lo so. Con me ha utilizzato un coltellino svizzero.


(QM - che se non ricordo male si chiama Kirstine Ann - ha cominciato il 19 agosto 2009 il periodo di aspirantato presso le suore Passioniste di clausura a Whitesville, nel Kentucky)

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(6.9.09)

 Dio esiste, ma non sei tu: rasségnati!

Partiamo dai dati di fatto.

Il solo prendere coscienza dell'esistenza delle cose rinvia necessariamente a “qualcosa d'altro”. Non ho scelto io di venire al mondo in Italia durante il ventesimo secolo, esattamente in quella famiglia, in quelle condizioni economiche, eccetera, tanto meno scelgo quanti capelli ho in testa o il numero delle mie scarpe, eccetera, eccetera. Più filosoficamente, “la realtà è un dato”.

Qualcosa “ha posto in essere” l'universo che io non ho fatto (e di cui faccio parte), universo che non sono in grado di conoscere se non in una trascurabile minuscola parte. Non conosco per bene nemmeno le cose che utilizzo: so la formula C7-H6-O3 ma non mi basta per prepararmi da solo un'aspirina per il mal di testa, conosco il funzionamento del motore a turbina non mi basta per creare un Airbus A330, eccetera.

Tutte queste cose valgono evidentemente anche per te e per chiunque altro, “credente” o “agnostico” o come altro preferisca farsi indicare.

Il primo dato di fatto incontrovertibile è che non ci siamo fatti da soli e che nemmeno “le cose” (l'intero universo) si sono fatte da sole.

Il secondo dato di fatto incontrovertibile è che con tutti i nostri sforzi e tutta la nostra buona volontà, non possiamo conoscere interamente l'universo (e neppure una minima parte).

Per rifiutare dati incontrovertibili è necessario smettere di usare la ragione e cominciare a parlare per sofismi e a vanvera.

Dichiararsi agnostici o atei significa voler ignorare o negare il primo punto ed abusare del secondo.

Che lo si chiami “Dio Padre” o lo si chiami “principio primo di tutte le cose” o in altro modo, la sostanza della questione non cambia.

Voler ignorare il primo punto è irragionevole; pretendere poi che l'ignorarlo sia ragionevole è una menzogna.

Per questo si deduce necessariamente che i sedicenti agnostici di oggi o sono pigri o sono in malafede.

Mi spiego: o è quella pigrizia mentale da personaggi che hanno come Dio il loro ventre e dintorni, oppure è una forma più o meno elegante di ostilità alla Chiesa (“non voglio avere a che fare con la Chiesa, perciò mi dichiaro ateo o agnostico”). Oppure è entrambe le cose.

Ti assicuro che conosco parecchi che si definiscono atei o agnostici (non solo nel luogo dove lavoro) e che tutti, senza eccezione, in un modo o nell'altro ce l'hanno contro la Chiesa. Talvolta obiettano “contro tutte le religioni”, ma in particolare, sempre, fermamente e convintamente, ce l'hanno contro la Chiesa. Senza eccezione. Mai sentito nessuno di loro dire: per questa battaglia la Chiesa ha ragione, per questo argomento la Chiesa ha parlato bene. Mai. Al contrario, mi è capitato di veder gente addirittura pronta a cambiare idea nel momento in cui si accorgeva di trovarsi in accordo con la Chiesa. Perbacco, ma allora è vero che chi detesta la Chiesa si rifugia dietro comode etichette!

Difendere l'agnosticismo o l'ateismo è perciò difendere un'etichetta di comodo: è un rifugio psicologico fondato sull'irrazionale al pari del credere nei rettiliani che complottano col governo americano. C'è gente che avverte l'urgente bisogno di credere agli oroscopi, e c'è gente che avverte l'urgente bisogno di dichiarare all'universo mondo di non voler credere in niente - o più elegantemente di non “poter” credere in niente - e dietro tutto questo fregiarsi di etichette da “agnostici” e “atei” c'è solo un odio alla Chiesa. O piuttosto, odio ad un'immagine distorta della Chiesa, un pregiudizio di cui si va fieri e contro il quale non si accetta alcuna ragione.

Insomma, il cosiddetto “agnosticismo” è una delle tante “religioni negative” che attualmente vanno di moda. Ha i suoi dogmi a cui bisogna credere con ferrea volontà; ha i suoi santi garanti di tali dogmi; ha i suoi templi e i suoi simboli, che affollano le colonnette laterali dei blog dei fedeli; ha i suoi sacerdoti dalle cui esternazioni pendono giulivi i fedeli; ha le sue liturgie, primizia delle quali è lo stracciarsi le vesti di fronte a chi la ragione la usa davvero... ed è tutto scimmiottato bene o male dalla Chiesa cattolica.

Religioni negative: non hanno qualcosa da proporre ma si fondano su un elenco di negazioni e di pregiudizi, per la quasi totalità fondati sull'odio alla Chiesa. Ed il paradosso è che più odiano la Chiesa, e più i loro metodi somigliano ai difetti che contestano alla Chiesa.

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(5.9.09)

 Gli argomenti tabù e le buzz-words

Esistono alcune parole ed alcuni argomenti che scatenano un'interminabile quantità di discussioni. Esserne coscienti aiuta molto.

Per esempio, la categoria delle buzz-words, utilissime quando qualcuno ti fa una domanda fastidiosa a cui non vuoi rispondere.

Un argomento famoso è “Berlusconi”.

Esempio: ti domandano se hai superato quel tale esame. Tu non vuoi rispondere e cominci a raccontare che (incredibile!) in fila per l'esame prima di te c'era una che era stata alle feste nella villa del Berlusca e che però alle elezioni aveva votato contro il Berlusca e che comunque col prof all'esame ha parlato solo del Berlusca e...

E certamente già dopo la prima volta che hai nominato il Berlusca si è scatenata una grande discussione tra i presenti. Per nominarlo la seconda volta hai dovuto alzare la voce. Per nominarlo la terza volta hai dovuto addirittura urlare.

Se qualcuno intuisce il tuo trucco e ti chiede: “sì, ma l'esame?” puoi prevenirlo e dire, ancor prima che abbia finito di parlare: “ma secondo me il Berlusca non ha tutti i torti e poi non è così nero come lo dipingono”, il che scatenerà altre furibonde discussioni...

I tabù funzionano al contrario.

Ugualmente scatenano discussioni, ma distruggono irrimediabilmente tutto ciò che eri riuscito ad esporre e dimostrare. Fanno dimenticare agli interlocutori tutto ciò che eri riuscito a spiegare. Ti fanno passare dalla parte del torto anche se avevi detto solo che nove per nove fa ottantuno.

È come nominare la Lazio in un covo di romanisti mentre stanno piacevolmente discutendo su quant'era buono l'abbacchio della cena precedente (mangiato per dimenticare la sconfitta nel derby).

Riesce purtroppo facilissimo incappare in buzz-words o in parole tabù, per cui occorre una certa dimestichezza nel districarsi nei discorsi senza nominare le prime (a meno che non siano necessarie per eludere argomenti fastidiosi) e senza nominare le seconde.

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(5.9.09)

 Ciellino al Meeting 2009, altri ricordi

Sorrido ai vescovi, è più forte di me. Vedere che dei successori degli apostoli passano a fare un giretto al Meeting di Rimini è una vera consolazione. Chi è sinceramente convinto della propria esperienza, non può non gradire di essere osservato dalla gerarchia ecclesiale.

Quel sensus Ecclesiae noi “ciellini” ce l'abbiamo nel DNA. Il monsignor Filippo Santoro (oggi vescovo di Petropolis, in Brasile) viene eletto vescovo, e il don Giussani gli corre incontro a chiedergli la “benedizione paterna”. Santoro è stupito, sembra quasi dire: “sono io che ti considero padre, e tu chiedi la benedizione paterna a me?”

Ciondolare con le amiche al Meeting è tutto uno shopping; tre ero e cinquanta per una crépe alla Nutella o quattro euro per una (gustosissima fin dal nome) “birra della Cascinazza” dai Carcerati, in questo momento mi sembrano un vero salasso, però a ripensarci... anche con quelle ho sostenuto il Meeting. E poi erano buonissime!

Spettacolare gadget estivo: il moleskine di Tracce, in omaggio a chi avviava o rinnovava l'abbonamento alla rivista lì al Meeting. Non vedo l'ora di farmi vedere in giro con quello tra il libretto dei canti e il libretto della liturgia delle ore.

Di sera, quando pensi che la giornata sia finita, ti capita un Dell'Asta sul palco e mentre ancora cammini per raggiungere gli amici cominci ad annotare sul taccuino: il Mistero è come una foresta, se la tagli via non la conosci, non la possiedi - ma il mondo crede che tagliando via il Mistero, potrà finalmente possedere la propria vita. Perbacco, al Meeting si impara anche “di straforo”...

Quando di sera le gambe e i piedi chiedevano pietà, ci sedevamo presso una delle piscine, malamente tentati di infilare i piedi in acqua, a contemplare l'andirivieni del popolo del Meeting ed a commentare gli eventi della giornata ed a commentare (a-hem!) le curve di alcune passanti. La sorpresa è il fatto di non essere stato il solo a notarlo: sebbene in abbigliamento “molto estivo”, le gentili esponenti del gentil sesso non erano abbigliate come vecchie bagasce di periferia. Nel rientrare in albergo infatti notavamo lo stridente contrasto tra l'abbigliamento “estivo” delle cielline e l'abbigliamento volgare delle turiste e della fauna locale.

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(4.9.09)

 Diario di viaggio a Taiwan

Il santuario della Madonna. È nel nord dell’isola, in un luogo veramente piacevole e aspro assieme. Sono colline di pietra coperte dalla vegetazione tropicale dalle mille sfumature di verde. Cascate d’acqua risuonano tra i boschi, ora in parte visitabili perché sono stati scavate delle scale.

Nel 1980 cinque scalatori (buddisti) si persero in quelle forre e stavano morendo quando videro una piccola statuetta di Maria lasciata da un missionario scalatore. Cominciarono a pregare. La loro candela, l’unica cosa che avevano, nonostante i venti, non si spense più finché apparve loro una Donna ad indicare la strada del ritorno. Si convertirono al cattolicesimo.

Sul posto ora sorge un santuario, con una grotta tipo Lourdes e camere per l’accoglienza. L’ho segnalato ai nostri tre come possibile luogo per la giornata mensile.

Ieri ho preso un caffè con il presidente del consiglio pastorale (aborigeno), il vice (taiwanese), altri laici e una suora (della tribù Akka): cinque lingue in sette.
Il resto di quell'appassionante diario di viaggio è sulla pagina del sito della San Carlo; tra le altre cose, lì, leggo della revisione della traduzione in cinese del Senso Religioso.

Leggere il sito web della San Carlo (organizzato come un blog, infatti usa la piattaforma Wordpress) è commovente come leggere i resoconti degli antichi missionari.

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(3.9.09)