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(24.06.10)

 Virilità e castità

Torna un vecchio amico dall'estero. Dopo aver lavorato qualche anno presso Famosa Grande Azienda, è stato finalmente trasferito in Italia.

Le prime cose di cui mi parla sono le sue (fantasiose) avventurette con le donne di quelle parti. Capisco che sono semplici fantasie dal fatto che introduce il discorso dicendomi che avrebbe “saputo” che durante questi anni anch'io ci avrei dato dentro. È solo un modo per dirmi che mi considera suo complice, che è disposto a ritenermi “virile” in modo che io creda alle sue gesta di “virilità”.

Per sua sfortuna, rispetto a quegli atti, la virilità non ne è l'esercizio forsennato ma il saper dominarli e saper riservarli ai momenti della vita matrimoniale in cui si desiderano figli.

“Virile”, infatti, implica “casto”. Virilità è dominarsi, è saper vincere perfino i propri limiti, perfino le proprie smodatezze.

Non è un caso che il primo significato di effeminatus, presso gli antichi romani, fosse quello di “uomo che si lascia andare alle passioni”. Cioè quello di “non virile”, perché il vir, l'uomo forte combatte e vince anche le proprie passioni. “Effeminato”, invece, è uno che come le “femmine” dà ampio spazio alle proprie passioni, uno che vuole tenere a freno tutto tranne le debolezze del proprio cuore e dei propri istinti (gli antichi romani, come in tutta l'antichità non cristiana, avevano una scarsa considerazione della donna). Secondare le passioni non è fertilità, non è virilità.

(E tu, donna, per la tua vita vuoi un uomo virile o ti accontenti di un complice che nonostante tutte le sue buone intenzioni finisce per considerarti un pezzo di carne da concupire?)

Di fronte a chi fa sfoggio di prodezze, vere o di fantasia, i ragionamenti non servono a niente. Un pizzico di ironia è sufficiente a ridicolizzare tutto il castello di fantasie dell'interlocutore, per quanto preparato e infiocchettato.

L'uomo “virile” non ha tempo per lasciarsi andare alle passioni, perché ha un ideale grande, grandissimo, che richiede l'impegno di ogni respiro della sua vita.

Ecco perché esistono il monachesimo, il francescanesimo, i grandi ordini religiosi. I loro fondatori erano virili nel senso pieno della parola.

Quel loro farsi “eunuchi per il regno dei Cieli” non era una castrazione, ma una virilità in senso pieno, un essere “innanzitutto uomini”, una virilità non intaccata dall'arrendersi ai propri istinti.

Vien da pensare alla situazione della Chiesa di oggi. I santi oggi scarseggiano perché scarseggia, specialmente nel clero, quella virilità, quella virtù (vis, forza; vir, uomo; virtus, virtù, del vir...), gli manca quell'essere uomo schietto, quella nettezza, chiarezza, eloquenza, quella capacità di imporsi che solo chi vince sé stesso può avere.

Citazione: «Un alto clero evidentemente virile, nel senso qui descritto, evocherebbe di nuovo questa potenza: basterebbe per attrarre sulla Chiesa la popolarità e un’autorità incarnata che persino gli avversari riconoscerebbero con rispetto; provocherebbe certamente il malcontento dell’harem clericale, le invidiuzze e i sussurri impotenti, il timore di veder lacerati decenni di femminei intrighi e accomodamenti col secolo. L’alto clero preferisce da tempo, ormai, le frigide esangui sicurezze del serraglio».

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(28.9.09)