Non so se lo avevi mai notato.
Lo si nota specialmente nel campo pubblicitario.
Tutto ciò che ci promette piacere e felicità... è sempre “esterno” alla nostra vita; “esterno” nel senso di “qualcosa da comprare”, qualcosa di indipendente da te, qualcosa che non potevi immaginare e che “ora che lo sai” sei tenuto ad acquistare.
Abbocchiamo facilmente all'idea che la felicità giunga dall'esterno, proprio perché siamo definitivamente incapaci di darcela noi.
I tentativi di vendercela sono terribilmente banali... e terribilmente efficaci.
Le lotterie sono solo uno dei tanti casi. Nell'immaginario collettivo c'è la possibilità di accedere ad una ricchezza pressoché incommensurabile (interpretata come possibilità presuntivamente infinite, libertà infinite, soluzioni infinite a ogni problema passato, presente e futuro)... ad un prezzo quasi gratuito (attenzione al quasi: è il costo del biglietto; a suon di “quasi”, a lungo andare veniamo spennati completamente).
La ricchezza proveniente dall'esterno. La bellissima e disinteressatissima principessa innamoratissima di te e che ti seduce. Il ricchissimo premio che aspettava solo te per essere acquisito e goduto. Il potere che piove nelle tue mani senza che tu abbia altro merito che l'essere lì ad appropriartene.
Non sono solo miraggi costruiti allo scopo di ingannarci. Sono un sintomo di quella sete infinita che abbiamo in cuore.
Siamo talmente stupidi - non solo assetati, ma anche stupidi - da contentarci di surrogati.
Siamo talmente stupidi che, anche se truffati, presto abbocchiamo di nuovo. Dopo aver pagato il biglietto per partecipare alla lotteria, prima o poi ritentiamo. Con un altro biglietto, un'altra lotteria, un altro inganno.
Dopo aver scoperto che certe immagini di felicità non danno la felicità ma danno solo un senso di vuoto peggiore di quel che volevamo scacciare... finiamo per tornare a cercarle. Non so se hai presente il pensionato del pianterreno che con un'espressione di estasi ripete il valore del montepremi come se fosse una giaculatoria, come se il televisore che ha davanti fosse il Tabernacolo.
Quel “miracolo del cambiamento” eccita perfino il pensionato che non ha più nulla da aspettarsi. Il suo sogno più o meno inconfessato è tornare dai figli e dai nipoti, zeppo di milioni, e cavarne tutti gli elogi e l'affetto che non ha mai avuto, che nessuno ha mai avuto.
Sta regalando soldi a tanti impianti di fabbricazione di sogni... in attesa che un qualche sogno si compia. Uno qualsiasi, pur di tornare raggiante dai nipoti. Il sogno di ieri è diverso da quello di oggi, e domani cambierà ancora. Sempre lo stesso sogno, in mille sfaccettature. Vive per un sogno.
Difenderebbe a spada tratta il suo operato. Si giustificherebbe di fronte a chiunque. La vita non è sogno, ma lui ha deciso che è il sogno a guidare la sua vita (quanto è elegante questo ennesimo modo di “farsi uguale a Dio”!)
La realizzazione del sogno “viene sempre dall'esterno”. È sempre un dono immeritato e inaspettato, e che dovrà essere infinitamente più grande di come lo si era sognato.
In parole povere, il sognare è un domandare un surrogato della divina grazia.
Grazia di cui abbiamo una sorta di nostalgia. E che per la nostra stupidità (piuttosto: per la nostra inclinazione al male, inclinazione al lasciarci vendere surrogati) ci contentiamo di veder sostituita da un'immagine, cioè da un surrogato meschino e volgare. Desideriamo l'infinito e poi gareggiamo nel cercare qualcosa di finito: totalmente sragionando, totalmente pretendendo.
E quando qualcuno ce lo fa notare, finiamo per “giustificarci da soli”, cumulando sofismi e paroloni per dare una parvenza di razionalità al nostro operato. “Ma se poi vinco...” Oppure “se poi perdo questa occasione...”
Non solo la debolezza del cedere alle lusinghe, ma la presunzione di affermare che l'errore sarebbe la cosa giusta. La pretesa di “creare” la realtà.
Ci diciamo sempre che “stavolta è diverso”. Stavolta è proprio per me. Stavolta è la volta buona. Stavolta sono io a decidere, scegliere, guidare. Finiamo cioè per rifugiarci nei sogni. Quello che è il maggior indizio che abbiamo assoluto e totale bisogno della divina grazia, finisce per diventare la leva del meccanismo perverso che nega la realtà ed afferma il sogno, cioè in fin dei conti un rozzo pretenderci uguali a Dio.
La realtà è dura e noi siamo così furbi che ci mettiamo a sognare. Come i proverbiali struzzi che avvertendo il pericolo, nascondono la testa sotto terra per non vederlo. Che furbata.
“No, proprio ora non voglio sacrificarmi”: insinuiamo che l'ordinaria amministrazione sia un intollerabile sacrificio.
“Questa è la volta buona, lo sento”. La percezione delle cose sostituita dal sogno momentaneo, il quale a sua volta è sostenuto dal meccanismo della tentazione.
L'ultima menzogna, la più grande ed efficace, è quella della disperazione. “Non ce la posso fare ad andare avanti: dunque vado indietro”. Dichiaro a me stesso che l'errore non sta in me, ma nel resto del mondo. E diabolicamente mi tuffo nuovamente nel sogno. Cioè nell'errore.
La vita non è sogno. Si vive nella realtà, non nei sogni.
Il sogno non è desiderio. Il desiderio ha dignità, il sogno no. Sognare non significa desiderare (nonostante talvolta il termine “sognare” venga utilizzato per indicare il desiderio di compiutezza... perfino in certe parrocchie!)
E nei nostri desideri - anche nei desideri più immondi - c'è una sete di compiutezza, di giustizia, di felicità, di compagnia... sete infinita, che solo in Cristo può saziarsi. “Chi beve di quest'acqua non avrà più sete”.
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