Don Giussani ha celebrato per un lungo periodo della sua vita nell'antico rito in latino (quello che il Papa ha detto che non è mai stato abolito). Lo stesso si può dire di tanti preti del movimento che hanno abbastanza decenni di sacerdozio.
Don Giussani aveva sempre avuto una particolare attenzione e cura per la liturgia. Una volta, mentre stava apprestandosi a celebrare messa, disse ai suoi ragazzi che gli avevano preparato l'altare che non lo avevano fatto bene. Sorpresi, gli chiesero come se ne fosse accorto. Allora li portò in fondo alla chiesa e fece loro osservare che la tovaglia dell'altare pendeva da un lato. Sulla liturgia non si può procedere per approssimazione o fretta.
Quarant'anni fa c'è stata la riforma liturgica, che fu accolta con un sospiro di sollievo da quelli che finalmente si sentirono liberi di gettar via il latino e la solennità, per dare spazio all'italiano e all'avanspettacolo. Chi aveva a noia il silenzio, l'adorazione, la preghiera, il canto sacro... poteva finalmente sbizzarrirsi. Uno dei tanti risultati è che la “complicata” messa domenicale in latino durava venti minuti, mentre oggi la messa domenicale in italiano si protrae per... (prova a ricordarti a che ora sei uscita dalla parrocchia domenica scorsa).
Don Giussani ha sempre obbedito ai suoi superiori ed ha obbedito anche sulla liturgia: lui e i suoi ragazzi, già perseguitati per altri motivi, non hanno voluto combattere battaglie già perse. Si sono subito adeguati ma hanno preso alla lettera il nuovo messale riformato scegliendo, tra ciò che questo qualificava come lecito, quanto bastava per ottenere una liturgia “asciutta”, cioè fatta senza correre e senza annoiare (sulla liturgia bisognerebbe discutere parecchio: qui mi sto solo limitando all'aspetto più superficiale: quello osservabile da chiunque; poi ti racconterò pure di quando un'amica mi invitò alla messa del “suo” movimento e fu una noia mortale e interminabile). Con lo stesso criterio va intesa la presenza di chitarre nelle liturgie cielline.
Nel Sessantotto e dintorni il movimento prese la sua sbandata (perdendo la maggioranza degli aderenti e assumendo finalmente il nome di “Comunione e Liberazione”). Solo i più fedeli restarono col don Giussani e ci vollero ancora diversi anni prima di assestarsi (ancora ad Assago, nel '76, il don Gius doveva ricordare cos'è il movimento). Allora come oggi, essere “ciellini” non significava affatto avere le stesse idee; tra le tantissime possibili dimostrazioni c'è per esempio il fatto che era di CL lo stesso fondatore della comunità di sant'Egidio (per motivi “politici” tale legame non è mai comparso nelle sue biografie ufficiali).
La “liturgia ciellina” si è perciò imposta per l'obbedienza di don Giussani alla gerarchia ecclesiale e per l'obbedienza dei preti di CL al don Giussani - a questi ultimi, infatti, apparirebbe poco ragionevole celebrare la messa “ciellina” in quel conformismo di “segni”, “gesti”, parole e paroloni, canzonette ambigue e protagonismi, cartelloni con caratteri in font “cicciotto”, applausi, omelie “partecipate”...
Ma sbaglieresti a dedurre che il movimento abbia seppellito la tradizionale (e mai abolita) liturgia in latino.
Nelle liturgie cielline - moderne e “asciutte”, detestate tanto dai fanatici della messa in latino quanto dai fanatici delle interminabili messe in italiano - trovano spazio, ogniqualvolta possibile, i canti della tradizione cristiana. Io stesso ho spesso invitato gente alla messa del movimento solo allo scopo di far sentir loro qualche canto. Un Jesu dulcis memoria ben cantato è di solito più che sufficiente per far capire che la liturgia non è una cerimonia o uno spettacolo. Il meglio dei canti lo si vede alle liturgie degli esercizi della Fraternità: ma lì non posso certo invitarci chiunque.
Tra i tanti preti “di CL” che conosco, buona parte - per lo più quelli nati e cresciuti in questo “nuovo corso” - troverebbero alquanto poco attraente l'idea di celebrare la messa in latino. Ma altri - anche giovani - non la disdegnano e, se dal movimento venisse qualche indicazione, certamente si attiverebbero per celebrarla in pubblico (ciò che ora per prudenza non possono fare). Il “salto” non sarebbe affatto difficile, visto quanto detto sui canti e sullo stile asciutto (e la “riforma della riforma liturgica” farebbe un altro passo avanti).
Nelle settimane successive al motu proprio sulla messa in latino, don Carrón fu in udienza privata dal Papa, non ricordo più per quale motivo. Se il Papa gli avesse chiesto esplicitamente sostegno, dagli esercizi dei preti della fine dell'agosto successivo centinaia di preti di CL si sarebbero messi in moto (sono certo che basterebbero poche parole di Carrón per convincere la maggioranza).
Ma il Papa non ha voluto chiedere per obbedienza ciò che si aspetta che porti frutto nella libertà dei singoli.
Un'ultima osservazione. Con la riforma liturgica di quarant'anni fa, nella terra di sant'Ambrogio nessuno si pose il problema della differenza tra il rito romano e quello ambrosiano. Invece, quando il Papa promulgò il motu proprio nel luglio 2007, le curie milanesi subito cavillarono istericamente contro la sua applicazione al rito ambrosiano (e da quel che mi dicono sul successore di Tettamanzi, non c'è molto da rallegrarsi). Anche questo è un motivo di riflessione: la guerra contro la messa in latino, un attacco da tutte le direzioni. Non è il frivolo argomento delle “donne-prete”, è qualcosa di assai più vasto e significativo. Ne riparleremo.
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