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(24.06.10)

 Si parla di Cristo sul luogo di lavoro

(non e' proprio una di quelle lettere che si leggono su Tracce...)

Lavorare in un ambiente infestato da anticlericali militanti è davvero faticoso. Il mio “apostolato” non può consistere in altro che nell'ironia e nel sarcasmo. Quando uno di loro pomposamente entrò affermando che tutto è relativo, subito soggiunsi: “se tutto è relativo, allora potresti votare anche per il Berlusca...” Seguì un cumulo di imprecazioni da parte sua, e da allora nessuno di loro ha mai più detto che “tutto è relativo”.

Al termine di un lavoretto difficile, uno esclama: “Grazie a Dio abbiamo finito”. Immediatamente controbatto: “come fai a ringraziare Uno che dici che non esiste?” Lui accusa il colpo e risponde velenosamente: “si fa per dire, si fa per dire!” Ed io non perdo tempo: “a te che sei ateo certe cose non dovrebbero scappare! non sarà mica che cominci pure ad andare in chiesa?” Lui cerca una sconfitta almeno onorevole: “Ma io non ho mai detto che non ci credo”. Mi giro verso gli altri colleghi, scalpitando: “Miracolo! Miracolo! Si è convertito! ora andrà a Messa la domenica e firmerà perfino l'ottopermille!” mentre il malcapitato tenta di discolparsi: “no, no...”

Ieri sera uno dei colleghi mi dice: “non uccido nessuno, sono cattolico, ogni tanto vado pure a Messa, ma tanto sto già in pace con me stesso, non rubo a nessuno, anzi, pago pure le tasse...” Gli rispondo: “e da quando in qua il cristianesimo è una serie di cose da fare? una serie di regole da osservare quando se ne ha voglia?”. Intervengono gli altri, infuriati, a pontificare: “ma non puoi dire questo! Avete i comandamenti, e poi quello che ordina la Chiesa, e poi non si può nemmeno fare sesso!”

Rilancio e rincaro la dose: “attenzione, non solo non puoi fare sesso, ma non puoi neppure desiderare la donna d'altri!” Scoppia il putiferio: “la Chiesa condanna anche le cose più naturali! va a finire che non puoi più vivere! non puoi fare niente! il tutto con la minaccia dell'inferno! c'è gente che non ha mai rubato a nessuno, mai ucciso nessuno, e poi giacché non va a Messa allora finisce all'inferno?!” Rispondo telegraficamente: “sì”, scatenando un clamore fatto di stracciamento di vesti (per lo sdegno) e di urla di giubilo (perché sentivano confermati i loro slogan).

A questo punto parto al contrattacco: “e secondo te io sarei così cretino da voler essere cattolico nonostante ciò comporti tutte quelle regole? mi servono forse delle regole per vivere felice?”

Il più furioso accetta la sfida e ribatte: “ma allora se il cristianesimo non consiste nelle regole, che cos'è?”

Lo guardo in faccia, un attimo di silenzio per alzare il livello di suspence, e gli dico tutto d'un fiato: “il cristianesimo è conoscere Cristo, amare Cristo; tutto il resto, tutte le regole, sono conseguenza di quello. Capisci? Risultato! Conseguenza!

Colpito, comincia ad arretrare: “ma io, a me a che mi serve? e se poi l'inferno non esiste?” Gli rispondo: “guarda che serve per essere felici; Gesù ha detto chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù, quindi oltre alla vita eterna (che magari può non interessarti) hai anche il centuplo quaggiù, già da questa vita, già da adesso, e quindi ti conviene anche se per assurdo l'inferno non esistesse” (non ho avuto tempo e modo di spiegargli “centuplo”, magari alle sue orecchie sarà suonata come una di quelle parole straniere mai sentite prima di cui non capisci il significato ma che ti affascinano).

Mi dice: “ma io ho già vissuto il cristianesimo e non fa per me...” Incalzo: “guarda, il cristianesimo che hai visto tu è roba per derelitti e imbecilli; il cristianesimo vero è una cosa per uomini... anzi, il cat-to-li-ce-si-mo, è una cosa per uomini con i controcoglioni!

È rimasto in silenzio, colpito in pieno. Probabilmente in vita sua non aveva mai sentito dire una cosa del genere.

Da tempo ha accuratamente evitato di rientrare in argomento: ora sa che il cristianesimo non è la parodia descritta dai suoi slogan e non è neppure la parodia che se ne vede in tante parrocchie. Deve solo trovare il coraggio di domandare.

Lo aspetto al varco. Non ho alcuna fretta di invitarlo alla scuola di comunità (per di più scalcagnata come la nostra) o alla Messa del movimento. Penso piuttosto che gli ci vorrebbe una bella terapia d'urto, una Messa tridentina, in terza, in una bella chiesa medievale.

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(24.2.09)

 Del problema della conoscenza, dei creduloni e dei complottisti

Da bambino ho creduto anch'io a Babbo Natale e alla Befana.

Una volta ne ebbi addirittura una “prova” scientifica: la sera del 24 dicembre uscimmo tutti per andare alla Messa della mezzanotte e quando rientrammo in casa trovammo i regali accanto al presepe e all'albero di Natale.

Forse ebbi per una frazione di secondo il sospetto che a metterli potesse essere stata mia madre un attimo prima di uscire... Ma l'emozione di quella vista bastò a cancellare quel sospetto, se davvero ci fu.

L'anno successivo ero un pochino meno ingenuo (perché madre natura, dopotutto, fa il suo corso).

La sera del 5 gennaio mi attardavo a giocare al balcone e mia madre mi intimò di rientrare. Incurante dell'ordine perentorio, restai lì. Mia madre tagliò corto: se non rientri, la Befana ti vede e non ti porta il regalo perché sei un bimbo cattivo che disobbedisce alla mamma.

Il mio sospetto che la Befana non esistesse era già abbastanza consistente: con tanti razzi, missili, aerei, astronavi, è mai possibile che la Befana vada in giro a cavallo di una scopa? E i motori dove stanno? e i comandi dove sono? e le lancette degli indicatori e il radar, dove sono?

Pur avendo addolcito la minaccia con una spiegazione razionale, teologica (chi fa il male non può pretendere di meritare il paradiso), quel ricatto fu come un cerino acceso lasciato cadere su una pozza di benzina.

Rientrai subito in casa, ma con la certezza definitiva che la Befana fosse una truffa. Una vecchiaccia laida, a cavallo di una scopa, avrebbe negato il regalo ad un bambino solo perché per un attimo lo ha visto prender freddo sul balcone la sera del 5 gennaio?

E tutte le mie marachelle (numerose) commesse nei 364 giorni precedenti non erano state conteggiate per nulla? E tutte le mie buone azioni nello stesso periodo (rare, ma c'erano) venivano annullate da un peccatuccio quasi veniale?

Non poteva ragionevolmente esistere una Befana così crudele e così facilmente ingannabile: i bambini cattivi si sarebbero mostrati ipocritamente buoni per la sola sera indispensabile al ricevimento del regalo, e i bambini veramente buoni avrebbero rischiato di perderlo a causa di un attimo di distrazione nella Serata Mondiale dell'Ipocrisia.

Se la Befana non esiste, tanto meno può esistere Babbo Natale che, senza vederti, sa se durante l'anno sei stato un bimbo buono o cattivo.

Insomma, ero ingenuo ma non ero tonto e, seppur momentaneamente sprovvisto di argomenti ancor più consistenti, avevo dedotto la verità ragionando sull'esperienza.

Nel rientrare in casa con la certezza dell'inesistenza della Befana, fui lambito per un attimo dal sospetto che tutto ciò che mi dicessero i miei fosse falso. Ricordai però una recente disobbedienza che mi era costata un innegabile raffreddore. Pertanto conclusi che non era ragionevole dubitare di tutto ciò che i miei mi dicessero.

Stando nella mia cameretta mi sforzavo inutilmente di essere almeno disposto a credere alla Befana solo per non rinunciare al regalo: fino al ricevimento del regalo sarei stato un “credente nella Befana ma non praticante”.

La mattina del 6 gennaio trovai regolarmente il regalo e subito dissi a mia madre: “ce l'hai messo tu!” Lei negò, sorridendo, dicendomi che era stata la Befana, ma da quel sorriso e da quell'espressione capivo che erano solo parole di circostanza. Per l'emozione del regalo lasciai cadere il discorso.

Nei giorni successivi, dapprima timidamente, e poi con maggior convinzione, tentai di spiegare ai compagni di scuola che la Befana e Babbo Natale non esistono, che la dimostrazione ce l'avevano sotto il naso, che bastava ragionare un pochino per capire tutto.

Le reazioni furono istantanee. E scomposte. Guai a toccare uno dei Sacri Dogmi! Abbiamo avuto i nostri giocattoli, chi sei tu per negare che ce li hanno portati la Befana e Babbo Natale? Ma come ti permetti di voler filosofeggiare sull'esistenza dei nostri due migliori benefattori? Complottista! Negazionista!

La discussione fu così accesa che intervenne la maestra per... confermare che Babbo Natale e la Befana esistono davvero! Mentre io guardavo basito la faccia di bronzo della maestra che mentiva sapendo di mentire, i miei compagni gradassi mi guardavano con spavalderia e soddisfazione: ne sai più tu che la maestra? Ciarlatano! Visionario! Eccentrico!

Più tardi uno di loro mi si avvicinò con circospezione per consolarmi: dai, anch'io lo so che Babbo Natale e la Befana in realtà sono il babbo e la mamma, però non si può dire! Tutti parlano di Babbo Natale e della Befana, anche in TV, e perciò se qualcuno dubita allora è ovvio che tutti gli diano addosso. Naturalmente ti prego di non dire agli altri che neppure io ci credo, altrimenti daranno del complottista anche a me e verremo emarginati, insultati e minacciati ancora di più. Per un caso isolato ci sono risate e insulti, ma due o più persone non allineate al Dogma Televisivo sono considerate un pericolo gravissimo e incombente.

Mi ci volle parecchio prima di realizzare che certe verità, perfino tra le più evidenti, non si possono annunciare in pubblico, mal disposto a lasciare da parte le comode idee che ha appreso dalla TV.

Mi rendo conto che un'affermazione del genere può apparire una sorta di preambolo a un discorsetto di sapore gnostico (per esempio per qualche cosiddetta “teoria del complotto”). Ma basta guardarsi un attimo indietro per scoprire come tanti leggendari personaggi ed eventi, a distanza di qualche anno, si siano poi rivelati il contrario di ciò che erano stati descritti dai media a loro contemporanei. Come ad esempio “il compagno Giuseppe Stalin, padre di tutti i lavoratori”, così citato talvolta perfino in ambienti cattolici. Dunque il preambolo esatto è: non dovremmo aver paura di scoprire che la realtà non è esattamente quella che la TV ci illustra.

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(19.2.09)

 Il male non merita alcuna pubblicità

Il male non merita pubblicità. Se ne deve parlare solo per lo stretto necessario.

Piccola dolorosa esperienza di un po' di tempo fa. A titolo di esempio, per completare in modo elegante un discorso sulla morale cristiana, nominavo una lista di peccati allo scopo di deprecarli. Il mio interlocutore (incredibile ma vero), il giorno dopo, casca a commettere il peggiore della lista.

Mi sono sentito in colpa per essere stato anche involontariamente strumento del suggeritore di tutti i peccati. Mi sono sentito anche uno stupido, a non aver pensato prima di parlare. Il discorso fu elegante, ma la conseguenza fu imprevista.

“Nominare”, in quel caso, era stato involontariamente un piccolo “evocare”.

Dovevano saperlo bene i monaci medievali, nel raccomandarsi a vicenda di parlare solo di cose che elevano lo spirito. Già sapevano che il male non merita pubblicità. Già sarebbero stati in grado di giudicare i nostri telegiornali, così compiaciuti nel raccontare morbosamente i dettagli più squallidi di certi delitti e di certi altri peccati... tanto da ispirare strane idee a chi ascolta.

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(16.2.09)

 La barzelletta dell'americano col taxi

A leggere i libri di don Giussani, si incappa anche in qualcosa come questa:

Chi ha in mano la Bibbia, dovrebbe andare a prendere il salmo 131, a proposito di gente che vive in catapecchie e ti fa il duomo di Milano. Non sto parlando della barzelletta dell'americano col taxi, che passa davanti al Pirellone e dice: “In quanto tempo l'avete fatto?” “Qualche anno.” “Hof, da noi una settimana.” Poi passa davanti a un'altra cosa, lì dove c'è il Centro della Provincia e: “Quanto tempo ci avete messo a fare questa cosa qui?”. “Ah, un sei mesi almeno.” “Noi, tre giorni”. Il taxi passa poi attraverso la piazza Duomo e l'americano dice: “Ma cos'è quella roba lì?” - il Duomo - e il taxista: “Ah, non lo so, stamattina non c'era”.



(barzelletta che il don Giussani racconta nel libro “Si può vivere così?”)

(ce ne sono altre sparse altrove: alle primissime pagine di “Dal temperamento un metodo”, e poi c'è quella quella su Stanlio e Ollio in “Avvenimento di libertà”, e poi altre ancora...)

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(11.2.09)

 Ma tu ti vuoi bene o no?

Ieri sera si è rifatta viva un'amica di vecchia data. Siamo andati a mangiare qualcosa insieme.

Non ci vuole uno psicologo per capire cosa nascondono certi sguardi e certe allusioni.

Per tutta la serata mi ha parlato di un tizio (un amico, “un po' più che amico, ma solo un po'”), elencandomi i suoi problemi, i suoi difetti, le sue indecisioni, concludendo stucchevolmente ogni paragrafo con “mi fa soffrire ma io gli voglio tanto bene”.

Ho sopportato con pazienza ma quando siamo usciti dal locale non ne ho potuto più e le ho detto: “il tuo problema è che non sei più un'adolescente”.

Mi guarda lusingata (perché si è sentita qualificare come una donna e non come una ragazzina). Lusingata e sorpresa, aspettandosi chissà che incensazione. E invece...

“Ti sembrerò brutale, ma il problema è che lui non vuole prendere decisioni. Vuole giocare. Il suo ideale è altrove, tu sei solo un diversivo. E per di più gli hai fatto capire che gli vuoi bene e che perciò stai al suo gioco: per questo ne soffri. Per paura di perderlo non lo costringi a giocare a carte scoperte, per paura di perderlo lasci che lui sia ambiguo”.

Nel frattempo pensavo: mi tocca fare (ancora una volta) il consulente matrimoniale?

Di fronte alle sue prevedibili giustificazioni, le ho chiesto: “ma tu ti vuoi bene o no?”

Non so come mi son venute fuori queste parole, appropriatissime, centrate al bersaglio.

In quest'epoca, infatti, pare che l'ambiguità nei rapporti sia una malattia epidemica. Nell'utopica speranza di farlo innamorare di lei, gli concede di essere ambiguo perché ha paura di perderlo. È la stessa cosa del regalare soldi a un drogato sperando che non li sprechi. Per ridursi a qualcosa del genere bisogna proprio odiare sé stessi (un odio irrazionale, non il cristiano sprezzo dell'amor proprio). Situazioni umilianti (come quella sopra descritta) vissute perché si ha paura di “perdere l'amore”, amore che esiste solo nei propri sogni. Sì, lui ti telefona almeno ogni giorno, ti regala questo e quello, ti dice tante belle parole... ma poi non vuol togliere il velo di ambiguità da questo rapporto. Come un ragazzino indeciso e con la testa tra le nuvole, ma decisissimo a non prendersi responsabilità. Per questo, se gli vuoi bene e se vuoi bene anche a te stessa, devi “costringerlo” a prenderti sul serio, a smettere di giocare, tanto più se vuole aspettare per decidere.

Mi viene in mente che dovrei farmi pagare per queste diagnosi così precise (anche se tutte uguali perché della stessa epidemia).

Poi mi viene in mente che tanta precisa diagnosi non è servita a niente. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Lei era solo una delle tante che mi ha parlato non per discutere di un argomento, ma per cavarmi qualche parolina dolce, per addossarmi un po' della sua solitudine, per propormi come sostituto di quell'eterno indeciso.

Il suo discorso di ieri sera era riducibile a due frasi: “vedi? son capace di sforzarmi di voler bene perfino a uno che ha tanti difetti. Che ne dici di sostituirlo?”

Avrei dovuto spiegarle che l'amore non è la somma di due solitudini. Avrei dovuto spiegarle che il matrimonio cristiano non è il festeggiamento di una (eventualmente reciproca) infatuazione. Avrei dovuto ricordarle “cercate Cristo, tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Avrei dovuto dirle “se proprio ti interesso, perché tenti di ingelosirmi parlandomi di lui”? Avrei dovuto...

Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Avrei dovuto dirle subito “non sei il mio tipo”.

Totalmente sprecata la serata di ieri? No, forse no. Non si sa mai. Non posso sputarci su perché la grazia agisce anche nelle più piccole cose, agisce soprattutto nei modi più imprevisti. Chissà se già in questa vita mi capiterà di vedere qualche risultato.

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(5.2.09)

 Orwell, "1984"

In una famosa rivista pubblicata lo scorso novembre, c'era un articolo intitolato: “Adesso in TV l'amore gay non fa paura”.

Traduzione dalla neolingua: “il Potere ha deciso che adesso (1) i rapporti omosessuali (2) devono essere elogiati (3)”.

(1) in realtà lo ha deciso già da tempo, ma è sempre bene ripetere la parola “adesso”. Per inquinare le menti non c'è niente di meglio della TV, che nel mondo civile viene subita quotidianamente per diverse ore al giorno. Gli esseri umani succubi della TV hanno la memoria più corta dei canarini.

(2) in realtà sappiamo tutti che non è in questione l'«amore», ma i «rapporti omosessuali».

(3) in realtà i rapporti omosessuali non fanno “paura” a nessuno (tranne a chi sta per subirne uno indesiderato).

Al massimo provocano sdegno, ribrezzo, disprezzo. Ma paura no.

La grande menzogna del Potere è sempre la stessa: trasformare un'opinione in reato di opinione. Come in “1984” di Orwell.

Oggi, specialmente oggi, se due omosessuali vogliono “amarsi”, di fatto nessuno glielo vorrà impedire per non passare per “omofobo”.

E finché i loro rapporti non vengono sventolati al pubblico, nessuno dice niente (per il principio “occhio non vede cuore non duole”).

Insomma, in questa società non sono discriminati gli omosessuali, ma sono discriminati coloro che credono che i rapporti omosessuali siano peccato (come nella prima lettera ai Corinzi, capitolo 6, versetto 10, dove dice che i sodomiti non entreranno nel regno dei Cieli... e non lo dice certo per paura o per istigare al razzismo).

Altro che “l'amore gay” e il “fare paura”!

Un altro esempio orwelliano.

«Era il 21 ottobre. Su un autobus di linea di Bologna salgono i controllori. Un gruppo di rom non ha il biglietto, volano insulti, minacce e spintoni. Scesi dal bus, i romeni vengono identificati: non hanno il biglietto ma precedenti penali. Lina S., una signora che è sull'autobus, però, non apprezza il modo in cui uno dei controllori tratta i rom, e scrive una lettera a Repubblica. Risultato: il controllore viene “sospeso a tempo inderminato”. Ora è a casa. Nessuno gli ha concesso il diritto di replica. Non lo ha fatto il quotidiano la Repubblica che ha ignorato la versione del controllore pur avendo pubblicato la lettera della signora Linda Serra con l’accusa di razzismo che gli è costata il posto di lavoro. Non lo ha fatto la sua azienda, Atc di Bologna che preoccupata del danno di immagine subito, ha preferito prendere semplicemente per buona la versione della passeggera indignata, senza fare più attente verifiche, prima di rimuovere un dipendente dal suo incarico, a tempo indeterminato e senza stipendio» (Liberonews, 13 novembre 2008)

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(2.2.09)


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