Ho terminato un'altra serie anime, disegnata in modo “moderno” (meno barocca della generazione precedente) e densissima dal punto di vista umano. Ancora una volta rifletto sul senso religioso.
Nonostante il cosiddetto lieto fine emerge prepotente allo spettatore la solitudine dei personaggi, tutti ancorati ai propri desideri e amori. I protagonisti, come al solito, sono tutti giovani. Con le ultime scene dell'ultimo episodio si avverte quella sensazione del “voltare pagina”, come se tutto ciò che hanno finalmente compiuto passasse da un momento all'altro nella categoria dei bei ricordi: sono diventati “adulti”, perciò “devono” lasciare quelle cose nei bei ricordi.
Per chi se ne rende conto, non c'è niente di più drammatico nella vita che l'aver raggiunto i propri obiettivi e vederli diventare in un attimo un caro ricordo. Per esempio, per un universitario, quell'attimo è l'applauso al momento della proclamazione, il momento in cui passa da studente a laureato e sente affiorare dal cuore la domanda: “ed ora?”, prontamente sedata da preoccupazioni, festeggiamenti, progetti per il futuro...
Dopo un po' di questi “ed ora?” viene il momento in cui ci si accorge di essere vecchi, cioè non si capisce per cosa si è vissuto. Hai raggiunto e conquistato già tante vette... “ed ora?”
Nella cinematografia occidentale questa sensazione viene elusa mediante banalizzazione (sentimentale, comica o altro). Negli anime giapponesi, che come plot e caratterizzazione hanno parecchio da insegnare all'intera Hollywood, quella sensazione non viene elusa perché... sono così ben fatti che non riescono ad eluderla.
Cesare Pavese è un esempio grandioso di come ci si rende conto che la solitudine è già indizio sufficiente per postulare qualcosa di più grande, di “esterno”, di “risolutore”. Gli autori giapponesi degli anime che commento in queste pagine non hanno letto il Diario di Pavese, eppure tendono involontariamente allo stesso struggimento (e anche quando ciò avviene per motivi commerciali, significa che hanno una platea capace di capirlo; non come i barbari italiani, dotati di una cinematografia criptica, psicotica, sentimentalistica, deprimente, banalizzatrice, quando non semplicemente volgare e idiota).
La risposta a quella sete di compiutezza è la grazia divina. Chi ha creato il cuore dell'uomo, sa bene cosa ci vuole per saziarlo, sa bene quale è l'ingrediente mancante che fa diventare degna di essere vissuta anche una vita di sofferenze e di sacrifici. Quelle risposte concrete ce le abbiamo tutti a portata di mano: basta saper accettare quel dono così com'è (così com'è).
Se affiora la domanda “ed ora?” vuol dire che gli occhi sono stati chiusi perché non si vuole più guardare. Malinconia, nostalgia, solitudine. “Ed ora?” Per il poco di vita che ci è dato, non possiamo vivere di “conquiste” (anche quando non siano frutto di pretesa o di inganno), perché presto o tardi quella odiosa domanda affiora prepotente. A che serve una vita fatta di obiettivi decisi dalle circostanze e più o meno “raggiunti”?
Basterebbe questa sola domanda (retorica) per arrendersi all'evidenza: lo scopo della vita è Cristo.
Chi vive per Cristo, non rischia mai di vedere quella domanda “ed ora?” affiorargli dal cuore, nonostante le cadute, nonostante le fatiche, nonostante gli obiettivi miseri (e magari pure non raggiunti), perché “chi beve di quest'acqua non avrà mai sete”.
Nei migliori anime giapponesi emerge quella sete che qui in Italia nessun autore contemporaneo sa riconoscere e mostrare (per questo sono costretto a citare Pavese): i protagonisti degli anime, anche se belli, bravi, intelligenti, tradiscono involontariamente quella sete nella misura in cui sono ben caratterizzati. Diventa davvero facile osservare che ai giapponesi manca Cristo.
Agli italiani, invece, par mancare solo la solita lista di azioni corporee - cibo (ma non per nutrirsi) e sesso (ma non per procreare), per lo più guardato o parlato. La tragedia, in questo caso, è che non si avverte un vuoto, perché lo si narcotizza con mille cose, per lo più banalità televisive.
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