Scopro per caso questa interessante testimonianza di un numerario dell'Opus Dei in missione in Giappone. Mi somiglia un pochino (almeno per quel che riguarda i nomignoli dei propri giocattoli da bambino).
Commovente il caso di quel suo amico architetto. Sebbene non cattolico, con la moglie prega ogni sera san Josemaría “e riceve molte grazie per la sua intercessione” (e chissà che un giorno non riceverà anche il “grande favore” della conversione all'unica vera fede). L'ho sempre detto che i giapponesi, a differenza degli occidentali, hanno un sentimento religioso più sincero e non si vergognano di fare quei gesti così semplici e così densi. Qui in Italia molti cosiddetti cattolici non sanno fare più neppure il segno della croce (fanno un segno striminzito, inzuppati di vergogna e fretta)
Siccome una pagina tira l'altra, leggo anche quest'altra testimonianza, di Ana. Mi colpisce la convinzione e la passione di quella quindicenne che si mette a lavorare in un laboratorio di biologia. Solitamente i “giovani” italiani, di questi tempi, arrivano a superare i trent'anni di età senza sapere neppure cosa sia il lavoro, avendo nutrito passioni più o meno passeggere per personaggi dello spettacolo e dello sport. Ana, invece, quindici anni, prende sul serio la sua passione per la realtà, per qualcosa di costruttivo ed intelligente.
Inoltre Ana, seppur proveniente da famiglia “per niente praticante”, non si cruccia per niente ad andare in una casa dell'Opus Dei. Qui in Italia - specialmente qui dalle mie parti - basta proferire le parole “scuola privata” per provocare scene di isteria collettiva (“la scuola dei preti! soldi tolti alla scuola pubblica! ingerenze vaticane!” e via fanfaronando), figurarsi il nominare l'Opus Dei o Comunione e Liberazione (ho già raccontato di come il mio parroco mi guardi allo stesso modo in cui zio Paperone guarda la Banda Bassotti entrata nel suo deposito).
Lei invece va lì e partecipa perfino a quelle cose religiose da “vita cristiana” che tanto scandalizzano molti parrocchiani d'Italia (anche qui avrei molto da raccontare; per esempio, recentemente avevo invitato un certo parrocchiano a venire a vedere il film Katyn: rifiutò sdegnosamente, sospettando che Katyn fosse un film ciellino con messaggi subliminali per far diventare ciellini gli spettatori).
Ana è stata poi capace di appassionarsi di un altro lavoro (assai più umile: “amministrazione domestica”) per lo spirito di servizio con cui veniva compiuto. Guardi gente che lavora, guardi come lavorano, e ti vien voglia di fare lo stesso. Cose come queste le ho sentite solo dagli amici dei Memores Domini... ed ora dalla Ana. Che si rende conto di non essere una “domestica” qualsiasi (cioè un prolungamento di qualche macchinario o utensile), ma si sente trattata come una persona e perciò si sente a casa propria. Sembra fare eco di ciò che don Giussani chiamava “dimora”. Si sente a casa propria, è trattata come una persona, lavora per Cristo anche in una mansione così umile, e riesce a farlo perché vede come lavorano le altre che stanno con lei. Sì, mi sembra di sentir parlare di una casa delle Memores Domini.
Infine, la foto con i suoi genitori. Che magari anche per lungo tempo non capiscono... ma che alla fine beneficiano della vocazione dei propri figli. Proprio quel che sta miracolosamente avvenendo ai familiari dei miei amici che sono entrati o stanno entrando nei Memores.
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