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(24.06.10)

 Il potere delle immagini

Cosa sia il “potere delle immagini” l'ho capito molto tardi, a undici anni di età.

Fu poco prima di Natale. Un parente era venuto a farci visita. Nel congedarsi mi disse: “vuoi venire a sciare a gennaio?”

Oggi so che lo fece per captatio benevolentiae, una frase ipocrita buttata lì per farso bello agli occhi dei miei (ai quali, pochi minuti prima, aveva chiesto un grosso favore).

Quel suo domandare “vuoi venire a sciare?” era perciò come il pallone da calcio disegnato sulla confezione di patatine, che scalda il cuore e propizia l'acquisto. Poco importa che ci sia da vincere un pallone ogni venticinquemila confezioni vendute.

Non ero mai stato a sciare e diffidavo di quel parente, ma non bastò. Quando la parola sciare attraversò le mie orecchie (sortendo lo stesso effetto dell'Incompiuta di Schubert), restai a bocca aperta, immaginandomi lanciato in velocità in una distesa di neve sotto un limpido cielo azzurro.

Tornai alla realtà quando avvertii la chiusura della porta di casa. Certe parole, almeno la prima volta che le sentiamo, evocano immagini a cui non sappiamo sottrarci.

Per diversi giorni mi arrovellai sul non aver avuto la prontezza di rispondere sì a quella domanda, sperando di ricevere di nuovo quella proposta, sperando che si ricordasse, sperando, sperando, sperando... aggrappandomi a quelle immagini che rivedevo davanti ai miei occhi: neve, sci, nevicata, sciare, distesa di neve... (dunque non era uno sperare, ma era un sognare!)

Il sogno era tale da vincere la diffidenza: ero pronto a riconoscerlo come mio benefattore, nelle mie fantasie già elogiavo le sue qualità davanti ai parenti che lo detestavano anche più di me ricordando incidentalmente quanto era stato bello sciare con lui.

Continuavo a fantasticare di neve e di sci, nonostante i miei mi avessero più volte detto di smetterla di pensarci, perché lo zio promette per non mantenere, perché se fosse stata una proposta seria avrebbe almeno telefonato per assicurarsi che avevo l'attrezzatura da neve (se fossimo stati un po' più ricchi, certamente l'avrei comprata). Passavano i giorni, lo zio latitava, e le fantasie cominciavano a cedere il posto alla sensazione dell'essere stato buggerato.

Le fantasie terminarono col ritorno a scuola. Fui perfino costretto ad inventare una miserabile scusa per dire a qualche compagno di scuola che non ero potuto andare a sciare come gli avevo solennemente preannunciato prima di Natale.

C'era stata l'epoca in cui diffidavo di quel parente. C'era stata la breve pausa di una grandiosa aspettativa (un'immagine, un sogno qualificato erroneamente come speranza), aspettativa creata dalla sua ipocrisia e dalla sua leggerezza. E ci fu poi il periodo del disprezzo (nei primi tempi fu vero odio), che perdura ancora oggi.

Il potere delle immagini: un'immagine può cambiarti la vita (non nel senso buono che vorresti). Inseguire un'immagine, vivere in nome di un sogno, cioè seguire un'illusione, dedicarsi ad un'illusione, deificare un'illusione.

Sto parlando di immagini, di sogni: non di “progetti” (qui voglio chiamarli “progetti”), come quello di Cristoforo Colombo che parte alla volta dell'America sulla base di ragionamenti, certezze, esperienze, insegnamenti, congetture in qualche modo fondate.

Un “progetto” può riuscire o può fallire, ma un sogno fallisce sempre. Come diceva Cesare Pavese, c'è una sola cosa peggiore del non realizzare i propri desideri, ed è quella di riuscire a realizzarli.

Ciò che veramente si può definire speranza si può fondare solo su una certezza presente. Tutto il resto è solo sogno, cioè illusione.

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(4.12.09)